La prima serata di Sanremo: che noia, a parte Mannoia!

Quest’anno la gara prevede 22 cosiddetti campioni e 8 nuove proposte. Ce ne vorrà di pazienza! Stasera si comincia con 11 dei big. Cronometro il tempo tra la fine del tg e l’inizio del festival: tra pubblicità e scemenze varie (incluso Poltrone & Sofà che appartiene a entrambe le categorie), passano ben 13 minuti. Poi Conti presenta una carrellata di successi sanremesi non vincitori, dalle origini ai tempi nostri,  a dimostrazione che le giurie non ci azzeccano quasi mai. Comunque, con le debite eccezioni, si nota il progressivo scadimento della qualità musicale: vuoi mettere Mia Martini con Frankie High Energy?

Poi lunga, anzi, interminabile sequela di autopresentazioni dei cantanti. Alcune sono decisamente imbarazzanti, coi rapper che insistono a definirsi musicisti mentre invece, qualcuno dovrebbe dirglielo, sono solo dei rapper. E poi ancora pubblicità, e si sono già fatte le 21.15. Tutti questi spot serviranno forse a sanare i bilanci del festival, ma sicuramente rompono i santissimi del vostro povero cronista.

E finalmente si comincia, in allegria (si fa per dire), con Tiziano Ferro (notoriamente ricco di verve e gioia di vivere) che canta Tenco. Per giunta in bianco e nero, vestito di nero e con la solita aria da funerale. Certo che se il festival deve servire a tirarti su il morale, cominciamo proprio alla grande. Se ne va Ferro e torna il colore ma la musica resta sul tragico, con inquietanti effetti di luce. Interessante il direttore che dà le spalle a parte dell’orchestra, confermando che in questo contesto la sua utilità è pari sostanzialmente a zero.

Ed ecco che torna Conti, abbronzato e sorridente come sempre, e annuncia che il voto sarà determinato per metà dalla sala stampa, per il resto dal televoto; i tre ultimi classificati, con gli ultimi classificati della seconda serata, si confronteranno nella terza serata per decidere quali saranno i due esclusi definitivamente.

Arriva anche Maria De Filippi, in lungo nero con vista sulle cosce. La sua voce notoriamente baritonale e quella squillante di Conti producono un effetto piuttosto bizzarro; si scambiano battutine abbastanza pietose su abbronzature e Trump.

E comincia la gara. La prima concorrente è Giusi Ferreri che canta Fa talmente male. Ci si sono messi in quattro per scriverla. Come al solito l’equilibrio fra musica e canto penalizza la comprensione delle parole. lei stonicchia un po’ nella strofa insignificante, però in compenso il ritornello non dice assolutamente niente. La voce sa un po’ di lavandaia rauca e il trucco pesante e greve conferma l’impressione che dà la voce.

Conti e  De Filippi continuano a dire battutine prima di introdurre Fabrizio Moro che canta Portami via. Intro di pianoforte solo, con borborigmo del cantante al solito incomprensibile, poi la voce va su ma si continua a capire poco. Lui pare malato di insonnia o di dipendenza da amfetamine, con quegli occhi a mezz’asta e la voce rauca e impastata. Qualcuno dovrebbe ascoltare l’invocazione che dà il titolo al pezzo, e portarlo via.

Le battute di Conti e De Filippi continuano ad essere pietose. Lei si vede che è giù di tono e più rauca del normale, cosa che non sembrerebbe possibile, e invece lo è. Fa un grande sproloquio sui sexy men per introdurre Raoul Bova che in fondo – a parte i capelli, i lineamenti, il fisico, gli occhi e l’età – non ha niente di meglio di me. Le battute restano di un livello infimo, con autocelebrazioni e scambi di complimenti piuttosto stucchevoli.

E canta Elodie, prodotto della scuderia De Filippi, con tatuaggio sul braccio e sul polso, come si conviene. Canta Tutta colpa mia e ascoltandola mi dico che ha proprio ragione. Lo  fa secondo lo stile standart delle cantanti gggiovani, ossia senza ombra di personalità e originalità. Ha voce e anche faccia piuttosto maschili. Portami via, amore amore mio,  sei andato via, è colpa mia: il testo è una congerie di banalità e purtroppo è perfettamente comprensibile: canzone che più da Sanremo, nel senso deteriore del termine, non si può.

Pausa per rendere omaggio agli eroi – militari, civili e  volontari – del soccorso  ai terremotati e alle vittime di Rigopiano. Finalmente un momento di vera e giusta commozione. C’è anche un bellissimo labrador. Il racconto, da parte di alcuni di questi grandi italiani, dei loro interventi, compensa il senso di vacuo che lo spettacolo ha dato finora.

Pubblicità.  5 minuti, anzi, 8.

E canta Lodovica Comello. Il pezzo si intitola Il cielo non mi basta. La ragazza è fresca e graziosa, ma stonatella. Il pezzo, tanto per cambiare, è una minestra senza sale sul piano musicale e una sequela di frasi sdolcinate quanto al testo. Le stonature sono la cosa più notevole dell’interpretazione. L’abito è costituito da allusive mani che, stampate sul top, coprono il medesimo. Finora non ho sentito una sola canzone che mi abbia impressionato.

Ed ecco Crozza, in collegamento video, con la sua copertina. Solite imitazioni, solito sparare sulla croce rossa sfottendo Renzi, che se continua a massacrarlo finirà per rendermelo simpatico (per istinto sono portato a solidarizzare coi perdenti). Non so voi, miei cari ventiquattro lettori, ma a me Crozza non mi fa più ridere, nemmeno quando poi sfotte Salvini e Raggi, il che è tutto dire.

Di nuovo pubblicità.

Canta ora Fiorella Mannoia. Vediamo se meriterà l’apostrofo. Che sia benedetta è il titolo del pezzo, dedicato alla vita. E finalmente una bella canzone. Testo intenso, complesso, davvero poetico, con musica degna di questo nome. Per quanto mi riguarda ho individuato la canzone vincente di questo festival. No, decisamente, stasera Fiorella non m’annoia: l’apostrofo non lo merita.

Il sesto campione è tale Alessio Bernabei, che io onestamente non so chi sia, ma se loro dicono che è un big si vede che è vero. Canta Nel mezzo di un applauso. Solita filastrocca-sbobba; per giunta stonicchia e canta tutto di gola, soprattutto negli acuti. Non vedo in cosa consista il suo essere un campione, e poi trovo insopportabili i grossi bottoni neri che ha ai lobi delle orecchie.

Ancora pubblicità. Debbono esibirsi altri cinque cosiddetti big e ci saranno gli ospiti, e i siparietti dei presentatori, e altra pubblicità. Ho compassione per quelli che si guarderanno anche il dopofestival, fino  chissà a che ora. Io guardo il festival per amore dei miei  ventiquattro lettori, ma il mio masochismo amoroso si ferma all’esibizione dei cantanti.

E torna Tiziano Ferro, come ospite, e canta Potremmo ritornare, una delle sue solite melopee a metà strada fra le litanie dei santi e il canto gregoriano della liturgia del 2 novembre. Comunque ha successo, e quindi si vede che ho torto io a trovarlo monocorde. Anche se il successo, a ben vedere, non è sinonimo di qualità: come dimostra, per dire, l’elezione di Trump alla Casa bianca.

Ferro canta poi insieme a Carmen Consoli, un’altra che quanto a litanie non scherza, una canzone dal titolo Il conforto, che se ho ben capito hanno scritto insieme, e insieme sono micidiali. Quello che trovo straniante è  che cantando con le loro voci da funerale una cosa cupa e angosciante come questo pezzo si sorridono radiosi, manco invece  che fosse l’Halleluya di Haendel. Però Consoli è tanto caruccia, e guardarla ti fa dimenticare i suoi caratteristici belati.

Torna la gara con – diosanto – Albano, rappresentante ufficiale di tutti i venditori da mercato all’aperto del mondo. Canta, travestito da parroco, Di rose e di spine. Inizia con la voce bassissima a parlare del solito amore eterno, una cosa esecrabile. E poi ecco la parte tenori(na)le, come da inevitabile cliché albaniano. Ma a parte il solito frullatore nell’ugola (non manca qualche raucedine e qualche incertezza nell’intonazione), ad affascinarmi è la sublime idiozia dei versi.

Andiamo bene: una sola canzone degna di questo nome, quella della Mannoia, fra tutte quelle sentite finora.

Pubblicità. E di nuovo debbo subire il vecchietto di Poltrone & Sofà, che Dio lo fulmini. E anche il risucchio pseudo sexy che chiude lo spot della Suzuki.

Ariecco Raoul Bova, che però promuove gli aiuti ai terremotati, e dunque ben venga. poi introduce l’ottavo cantante, fondatore dei subsonica, che si chiama Samuel. Cappellino da rapper, speriamo che non sia rapper. Canta Vedrai. No, non è un rapper. A dispetto dell’atteggiamento rockettaro e della voce incongruamente adolescenziale, canta una canzone di tono piattamente standard, sia nella melodia che nella struttura del testo, per quel che se ne capisce.

Ospiti, nell’insolita veste di cantanti, arrivano Paola Cortellesi e Antonio Albanese, che promuovono il film che sta per uscire nelle sale. Il modo di cantare della Cortellesi non mi piace moltissimo, ma è simpatica. Albanese fa finta di cantare ma in realtà recita. Il loro siparietto si può accettare.

Nono cantante in gara Ron. Speriamo bene perché è bravo, ma a Sanremo non si sa mai. Canta L’ottava meraviglia. E no, non mi convince: si è sanremizzato (scusate il neologismo) troppo, era meglio l’altra volta. Melodia scontata e melensa, senza personalità, e solita storia d’amore. Peccato.

Discorso apprezzabilissimo di De Filippi contro il bullismo. Presenta due bravi ragazzi – meridionali, che bello – che hanno fondato un movimento di lotta al bullismo a scuola. Veri, sinceramente emozionati e puliti. Questi siparietti legittimano e giustificano l’esistenza del festival.

Torna la gara con un rapper paludato nella tipica tenuta da rapper, con berrettino e tatuaggi d’ordinanza. È Clementino che canta – si fa per dire – Ragazzi fuori. Come d’obbligo per il personaggio, solita filastrocca e solito pistolotto moraleggiante sui soliti ragazzi di periferia di Napoli, con l’aggravante delle rime in -ia e infarcito di e poi. Il ragazzo durante l’esibizione soffre tanto, sente molto il pezzo; lo sento anche io, purtroppo, e soffro pure. Ma per motivi opposti ai suoi.

Lunga ospitata di Ricky Martin, per la gioia degli amanti del genere: dei quali, per motivi anagrafici e non solo (scusate, abitualmente ascolto Beethoven), non faccio parte. Il suo lungo e atletico intervento mi dà modo di andare a fare la pipì senza rischiare di perdermi l’ultimo cantante in gara che poi magari, come tanti dei precedenti, produce un effetto non tanto diuretico quanto lassativo: proprio, paradossalmente, come lo spot dell’acqua Lete della successiva infornata pubblicitaria, con quel rap cretino eseguito dalla bottiglia da mezzo litro.

Ancora una canzone, dunque, poi posso pubblicare il pezzo e andare a nanna. la canta Hermal Meta, albanese immigrato che si è integrato, alla faccia di Salvini. Vietato morire è il pezzo. Sono contento che il ragazzo si sia integrato; ma se si fosse dedicato, che so, alla medicina o alla fisica, o alla giurisprudenza, secondo me sarebbe stato meglio. La canzone sembra la riesumazione di Gene Pitney. Pensiero ozioso: chissà se Gene Pitney qualcun altro se lo ricorda, oltre me.

Bene, le undici canzoni sono finite. Aspetto di sentire la classifica provvisoria. Intanto arriva (e il regista indugia molto sulle gambe snelle e lunghe che si affacciano dall’abito in stile uovo di Pasqua che indossa) la giovane e bella Diletta Leotta, che è stata vittima di hackeraggio di sue foto intime. Fa bene a reagire e denunciare, brava. Però io le foto intime in cloud non ce le metterei mai, se ne avessi. Non ne ho perché sono vanitoso e narcisista, ma non scemo e nemmeno cieco.

Un cretino fa una patetica imizione di Bob Dylan, cosa terribile. Poi arriva una ragazza che non so chi sia e nemmeno m’interessa di saperlo. Evidentemente l’hanno invitata per le qualità fisiche, visto che è molto bellina, e fa un po’ di smancerie a Raoul Bova. Ma quando arriva la classifica?

Bisogna aspettare: prima ci sono i Clean Bandits, che a dispetto del violoncello nella band fanno la solita musica di strepitoso successo, ossia con ritmo latino e melodia ripetitiva, che come tutti i precedenti strepitosi successi dello stesso genere fra un mese o due non se lo ricorderà più nessuno. In fondo, la differenza con i concorrenti di Sanremo è marginale, successo a parte. E dopo c’è il Tg; e dopo c’è l’ennesima ospitata, riguardante due interminabili sportivi, alti entrambi oltre i due metri; poi Rocco Tanica, poi la pubblicità.

E infine il verdetto: gli ultimi tre sono Clementino, Ron e Giusi Ferreri. Mi stanno bene i primi due però, tutto considerato, invece della Ferreri io avrei escluso piuttosto Al Bano, ma tant’è.  È tardi e voglio andare a letto anche se temo che in sogno Giuseppe Verdi me ne dirà di tutti i colori per aver perso tanto tempo ad ascoltare questa roba.

E io (siamo molto intimi) gli dirò: Perdonami, Peppino : l’ho fatto per i miei ventiquattro lettori.

 Giuseppe Riccardo Festa

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