CARIATI – SPIGOLATURE STORICHE – 1728/1763. ATTI DEI NOTAI GIUSEPPE GARRI E DOMENICO FARAGO’ (Seconda Parte)


di MAURO SANTORO


Attraverso l’approfondimento degli archivi storici, in questo caso consultando principalmente i registri contenenti gli atti redatti dai notai Giuseppe Garri (originario di Napoli e con sede a Cariati) e Domenico Faragò (con sede a Terravecchia e nativo del luogo) negli anni compresi tra il 1728 ed il 1763, in originali presso l’Archivio di Stato di Cosenza, e che riguardano i cittadini di Cariati, continuiamo a sottoporre all’attenzione dei lettori i nomi e i cognomi dei nostri antenati, le relazioni di parentele, i mestieri, i ruoli che avevano nella comunità e che ci aiutano a ritrovare le nostre radici genealogiche, oltre che a disvelare alcuni aspetti storici della cittadina. Uomini e donne, quindi, che con le vicissitudini delle loro vite hanno fatto la storia della comunità cariatese.

 

Occorre specificare che sin dal medioevo la funzione del notaio – dal latino notare ossia annotare – assunse il ruolo di una professione pubblica autorizzata o dal giudice amministrativo locale, per la nomina dei notai pubblici presenti in tutti i paesi, o dal sovrano per la nomina dei notai regi. In ambito ecclesiastico essi erano nominati dai vescovi e scelti tra i religiosi della diocesi.

Nella sua funzione pubblica il notaio si identificava con il tabellionato; era il singolare ed esclusivo segno con il quale i notai sottoscrivevano i contratti, le transazioni e che garantiva l’autenticità degli atti rogati. Era tracciato a mano ed era costituito da una particolare disposizione di segni, figure, lettere – spesso le iniziali del nome e del cognome preceduti dalla lettera N [notaio] –, altre linee incrociate in modo tale da costituire nel percorso una specifica immagine che, nell’insieme, costituiva l’esclusivo segno distintivo e l’ufficio pubblico del notaio.

Con il trascorrere del tempo, nel XVII secolo il tabellionato fu sostituito da una impronta grafica a stampiglia con inchiostro e successivamente con un vero e proprio timbro.

Tabellionato del notaio Giuseppe Garri
Tabellionato del notaio Domenico Faragò

NOTE DI COMMENTO ED OSSERVAZIONI:
In base alla legislazione vigente nella epoca storica indagata, le donne non avevano autonomo potere giuridico. Infatti, negli atti pubblici il potere di rappresentanza era esercitato o dal padre o dal marito che di fatto nelle decisioni ufficiali si sostituivano alla congiunta.
Nell’epoca indagata l’oncia d’oro equivaleva a sei ducati o docati. I sottomultipli più diffusi del ducato erano: il carlino, ne occorrevano 10 per costituire il valore di un ducato; la grana, che costituiva la decima parte del carlino, il taglio più piccolo era il callu, detto più comunemente cavallo, pari alla dodicesima parte della grana. Con l’unificazione dell’Italia avvenuta nel 1861, il ducato era quotato 4,25 lire italiane.
Il censo ed il livello era l’istituto giuridico che regolava i contratti in base alla quale un determinato soggetto doveva pagare annualmente un canone al proprietario di una casa o di una porzione di terreno per poterne godere l’uso e i frutti. Questi contratti, redatti in forma pubblica dai notai, potevano essere a termine oppure perpetui. La maggior parte dei censi o dei livelli, in realtà, gravavano prevalentemente su tutte le proprietà possedute dagli enti ecclesiastici, dalle cappellanie e dalle chiese e che questi concedevano in uso o coltivazione, esente da tasse. Spesso, questa grande ricchezza immobiliare veniva donata alla “chiesa” dai devoti che nei loro testamenti ne trasferivano la proprietà con l’obbligo che le autorità ecclesiastiche beneficiarie celebrassero tante messe per l’anima del concedente dopo la sua morte.
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ATTI NOTAIO DOMENICO FARAGO’

==    Il 14 ottobre del 1762 innanzi al notaio Domenico Faragò si presentarono don Gennaro Cicala, procuratore del canonico don Nicolò Salvati, e mastro Leonardo Del Giorno insieme ai figli Bonaventura ed al sacerdote don Giuseppe.

I Del Giorno dichiaravano che il precedente 23 ottobre del 1759, con l’atto rogato dal notaio cariatese Antonio Tramonte, avevano dato in pegno a don Nicolò Salvati una loro proprietà di ulivi situata nella località Foglino. In cambio avevano avuto un prestito di 25 ducati e concordato che nel corso di tre anni, restituendo la somma, sarebbero rientrati in possesso dell’uliveto di cui il sacerdote don Nicolò avrebbe goduto dei frutti a titolo d’interessi.

In quella data i debitori decisero di versare al creditore, tramite il procuratore don Gennaro Cicala, l’intero importo dei 25 ducati in moneta effettiva e d’argento.

Sottoscrissero l’atto: Cesare Greco regio giudice à contratti; canonico don Cesare Chirijaci; fisico Simone Garofalo; diacono don Giuseppe Pignola; reverendo don Carlo Giano.

==    A Cariati i germani Giuseppe e Francesca De Franco, con il rogito notarile del primo gennaio 1763, alienavano al magnifico Leonardo Bisanti la vigna che possedevano nella località Brica.

Poiché la Mensa Vescovile cariatese vantava su quella proprietà una ipoteca per un prestito concesso tempo prima, il decano economo don Gennaro Cicala, quale procuratore, acconsentiva alla vendita a condizione che l’acquirente avesse continuato a pagare un canone annuo di due carlini, fino a quando non si sarebbe saldato l’intero debito.

Sottoscrissero l’atto: magnifico Leonardo De Fine regio giudice à contratti; Nicolai Campana; Francesco Caruso; Arcangelo Mascambruno.

==    Il 18 aprile del 1763 i coniugi Leonardo Monizza ed Elisabetta Arnone, entrambi cariatesi, si costituirono innanzi al notaio Domenico Faragò per fare una donazione irrevocabile al figlio Fedele a titolo di patrimonio. Con lo scopo che il loro figliuolo, chierico novizio nel Seminario di Cariati, potesse divenire sacerdote ed avere una dote che gli consentisse di vivere con dignità.

La dote era costituita da 10 tomolate di terre aratorie [adatte alla semina] situate alla Marina. L’uliveto di Moranile, oltre alla metà delle proprietà del Molino di Marcomazza. Un vignale [terreno già adibito a vigna] ubicato al Varco ed un palazzo costituito da sei stanze, situato nel luogo Sotto il Campanile. Su tutto quel patrimonio il chierico Fedele Monizza, e per l’intera sua vita, avrebbe goduto del solo usufrutto.

Sottoscrissero l’atto: Leonardo De Fine regio giudice à contratti; notaio Benedetto Pace; Francesco Curti; Gioacchino De Paolo; Filippo Rosuleo; Agostino Cosentino.

==    La vedova Giulia Papajanni, il 18 aprile del 1763, per specifici bisogni della sua famiglia chiese ed ottenne da reverendo don Bonaventura Venneri la somma di 12 ducati in prestito.

La Papajanni, a garanzia della restituzione del denaro, accettava di porre un censo affrancabile sulla sua casa palazziata [su più piani] di Cariati, ubicata nel luogo la Piazza. Obbligandosi al pagamento, nel mese di agosto, di un censo annuo, a titolo di interessi, di 7 carlini e 2 grani, con la facoltà di estinguere il debito contratto in tre rate.

Sottoscrissero l’atto: magnifico Cesare Greco regio giudice à contratti; mastro Giacinto Napolitano; Nerio Franceschini; Francesco Natale; mastro Leonardo Cicala; Cataldo Cipriotti.

==     Nell’estate del 1763 alcune vicende incresciose accaddero a dei sacerdoti di Cariati nella Terra di Cirò. Questi religiosi, per scagionarsi da determinati reati che gli venivano imputati, dovettero chiedere la sottoscrizione di alcune fedi da parte di talune persone presenti ai fatti accaduti. Gli atti, redatti nella cittadina cariatese, furono scritti dal notaio terravecchiese Domenico Faragò.

Accadeva, perciò, che Raffaele Natale, originario della città di Cosenza, soldato nella Regia udienza provinciale ed in servizio a Cariati, innanzi al notaio Domenico Faragò ed altri testimoni, dichiarava liberamente che trovandosi nella città di Cirò per lavoro assistette alle seguenti circostanze.

Poiché era pubblico assistente del magnifico Tommaso Vitale, subalterno della Regia udienza di Cirò ed originario di Cosenza, la sera di lunedì 11 luglio 1763, fu chiamato dal mastrogiurato cirotano [magistrato civile], il notaio Giuseppe Librandi, che gli ordinava di scortarlo nella marina di Cirò. Il mastrogiurato ed una squadriglia armata di notte si portarono alla foce del fiume Salice per arrestare alcuni individui della cittadina cariatese che, avendo intorbidito le acque con del tasso [sostanza tossica estratta dalla pianta del tasso], volevano pescare di frodo dei cefali.

Appostatesi sulla riva del mare i gendarmi attendevano quei pescatori che furtivamente, alle prime luci dell’alba, issavano le reti cariche di pesci. Questi, approdati sulla spiaggia per recuperare alcune vettovaglie, si trovarono innanzi tali Silvestro Crogliano e Leonardo Rovito che, fingendosi gente comune, proposero di acquistare del pesce. Quei due agenti in abiti civili si sentirono rispondere da quei pescatori che loro non erano marinai ma dei sacerdoti che si erano andati a pescare per divertimento.

E mentre interveniva il resto della forza pubblica, il soldato Silvestro Crogliano arrestava l’uomo che si qualificava come il reverendo don Pietro Antonio Papajanni. Contemporaneamente, tale Giovanbattista Casabona bloccava il sacerdote don Lorenzo Greco puntandogli la canna del suo fucile. Il gendarme Martire De Vico, con il calcio dell’archibugio, colpiva nel petto Giuseppe Del Giorno.

Raffaele Natale, nel proseguire la sua attestazione, chiariva di avere avvertito il Di Vico che quell’uomo era un sacerdote perché lo aveva conosciuto quando prestava servizio nella città di Cariati.

L’altro soldato chiamato Martire non si curò dell’avvertimento né di avere rispetto del religioso e gridava che: non gl’importava ch’era un prete. Fu intimato alle persone rimaste sulla barca di scendere a riva ed uno di loro, il sacerdote don Francesco Cappello, mentre sbarcava tentò di indossare il colletto, ma il mastrogiurato Giuseppe Librandi si avventò contro e glielo impedì.

Gli arrestati incatenati ed a piedi furono condotti a Cirò e consegnati al governatore di quella città per essere giudicati, dopo che per tre giorni erano stati rinchiusi nelle carceri cittadine.

Ancora sotto giuramento, il soldato Raffaele Natale confermava che quel governatore, il notaio Marco Antonio Russo originario di Mesoraca, era a conoscenza dello stato sacerdotale degli arrestati e che per questo non erano soggetti alla sua giurisdizione, ma dovevano essere giudicati dal vescovo di Cariati.

A sostegno della veridicità dei fatti interveniva un’altra fede fatta da tale Tommaso Vitale, subalterno della Regia università di Cosenza, che sotto giuramento asseriva che la sera dell’undici luglio del 1763 si trovava a Cirò perché prestava temporaneamente servizio in quel tribunale. La mattina del successivo 12 luglio sentì un gran vociare per le strade del paese e gente che gridava: vengono li preti di Cariati carcerati. Affacciatosi alla finestra dell’ufficio vide l’aggente di Cirò Diego Zito che conduceva gli arrestati dicendo che: lui non c’entrava in questo fatto e che gli era stato ordinato di condurli dal governatore.

Il Vitale continuò nella ricostruzione dei fatti asserendo che fu disposto dall’autorità di governo che i rei fossero rinchiusi in una stanza del castello marchesale e successivamente condotti singolarmente alla sua presenza per l’interrogatorio di rito. In quelle circostanze i sacerdoti fecero notare al governatore che essi erano soggetti alla giurisdizione del vescovo e non potevano essere giudicati dall’autorità civile.

Marco Antonio Russo si giustificò affermando che come autorità governativa aveva fatto convocare il vicario diocesano e poiché questi era assente per essersi recato a Carfizzi aveva decretato che dovevano essere giudicati dal mastrogiurato.

Tommaso Vitale concludeva la sua dichiarazione a favore degli ecclesiastici cariatesi affermando che, come uomo di legge, sapeva che si era commesso un abuso verso quelle persone, perché essendo quelli dei religiosi non potevano essere giudicati senza la specifica licenza della Curia vescovile. Ed il governatore, pur sapendo che sarebbe potuto incappare in una scomunica, continuò a perseguitare i sacerdoti di Cariati.

Sottoscrissero gli atti: Cesare Greco regio giudice à contratti; mastro Nicola De Acri; Giuseppe Sammarco della Terra di San Fili; mastro Elmo Mindozza; mastro Leonardo Ferri; mastro Giuseppe Antonio De Napoli.

==     Il 13 settembre 1763 il cariatese mastro Giacinto Napolitano, alla presenza del notaio e dei testimoni, versava al canonico don Saverio Parise la somma in denaro di 5 ducati.

Il pagamento avveniva perché mastro Giacinto tempo prima aveva acquistato una casa da tale Francesco Fravicaturo su cui gravava un censo annuo affrancabile di 45 grani per un capitale che la Chiesa della Santa Trinità di Cariati aveva prestato al vecchio proprietario. Per estinguere quel debito il Napolitano, perciò, aveva versato l’importo del capitale a don Saverio Parise, prefetto di quella chiesa.

Sottoscrissero l’atto: Cesare Greco regio giudice à contratti; Arcangelo Mascambruno; Benedetto Cosentino; mastro Giacinto Covello; mastro Leonardo Cicala; mastro Nicolai Cipriotti.

==     Con l’atto redatto dal notaio cariatese Francesco Antonio Tramonte, il defunto mastro Agostino Cappello aveva avuto un prestito di 14 ducati dalla Cappella di San Cataldo.

Divenuto erede mastro Giacinto Napolitano, il 13 settembre del 1763 restituiva al cappellano protempore, il diacono don Benedetto Cosentino, l’intero capitale erogato a suo tempo. Il diacono a nome e per conto della Cappella rilasciava quietanza e liberava il debitore dal censo annuo gravante sui beni del defunto mastro Agostino Cappello.

Sottoscrissero l’atto: magnifico Cesare Greco regio giudice à contratti; mastro Giacinto Covello; mastro Leonardo Cicala; mastro Arcangelo Ligori; Domenico Bastone.

==      Il 23 ottobre del 1763 i cariatesi reverendo don Giuseppe Del Giorno ed il fratello Bonaventura cedevano in usufrutto a Bonaventura Venneri un uliveto situato nel territorio di Cariati alla località Filice.

La somma pattuita per tale godimento ammontava a 44 ducati per complessivi sei anni di frutto, che il cariatese Venneri pagava ai Del Giorno interamente quel 23 di ottobre alla presenza del notaio Domenico Faragò.

Sottoscrissero l’atto: Cesare Greco regio giudice à contratti; Domenico Funaro; mastro Tommaso De Leo; Giuseppe Sposato – tutti di Terravecchia perché l’atto fu scritto in quel paese.

==      A Cariati Scipione Martire, pubblico esperto dei campi [equivalente ad un odierno perito agrario], vendeva al nobile cariatese Bonaventura Venneri una porzione di uliveto su cui gravava un canone annuo di 10 grani a favore dell’Arcidiaconato di Cariati.

Sottoscrissero l’atto: Cesare Greco regio giudice à contratti; Francesco Antonio Curti; Arcangelo Graziano; Francesco Ferraro.

==       Nel giorno 22 dicembre del 1763 il notaio Domenico Faragò con altri testi, opportunamente convocati, si recarono nell’abitazione del canonico don Carlo La Macchia, situata nella città di Cariati Sotto il Campanile. Il sacerdote, ormai in precarie condizioni di salute, raccomandando l’anima a Dio dettava le sue ultime volontà testamentarie nominando suoi eredi universali il fratello Simone, la sorella Lucia ed il nipote Cataldo La Macchia.

Don Carlo dichiarava altresì che tempo prima aveva ottenuto dal vescovo di Cariati mons. Carlo Ronchi un prestito di 27 tumuli di grano e che successivamente aveva restituito il frumento per il tramite del decano don Giorgi. Questi, per disposizioni del vescovo, doveva ridistribuirlo agli eredi del defunto arcidiacono Mascari, perciò i parenti di don Carlo La Macchia nulla dovevano per quel prestito.

Poiché il sacerdote aveva svolto la sua missione pastorale nella Chiesa di Cerenzia, in quel paese aveva prestato a tal Saverio Palmieri la somma di 26 ducati. Gli eredi alla riscossione del credito, con quella somma dovevano far celebrare all’altare maggiore della Chiesa matrice di Cariati tante messe per l’anima di don Carlo e le funzioni dovevano essere svolte da sacerdoti componenti il Capitolo cattedrale della città cariatese.

Sottoscrissero l’atto: Cesare Greco regio giudice à contratti; canonico don Saverio Parise; Diego Di Giuseppe; Giuseppe Caligiuri.

==    Nell’ottobre del 1762, il giorno 14, il sacerdote don Cesare Ciriaci con il fratello Filippo e le sorelle Porzia e Oridda, per dei bisogni di famiglia, decisero di chiedere un prestito di 105 ducati ipotecando delle proprietà su cui sarebbe gravato un censo annuo di 6 ducati e 30 grani di interessi.

I possedimenti che intendevano dare in garanzia erano quelli posseduti in Cariati e nello specifico: un trappeto situato nella strada Capuana, una porzione d’ulivi al Salto ed un’altra che si trovava al Petraro. Sulla proprietà del Salto gravava una annualità di 9 carlini per un prestito da restituire al Capitolo cattedrale della stessa città di Cariati.

L’intera somma del prestito fu versata ai fratelli Ciriaci dal decano don Gennaro Cicala che, appositamente autorizzato dalla Curia cariatese con decreto dell’undici ottobre 1762, interveniva alla stipula dell’atto notarile come rettore del seminario per l’importo di 30 ducati, cappellano del Purgatorio per altri 50 ducati e quale procuratore della cappella del SS.mo Sacramento per il resto di 25 ducati.

Sottoscrissero l’atto: magnifico Cesare Greco regio giudice à contratti; fisico Simone Garofalo; reverendo don Giuseppe Del Giorno; mastro Leonardo Del Giorno.

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ALTRE CURIOSITA’

A margine delle vicende giudiziarie discusse innanzi alle Commissioni feudali, ai Commissari del re ed ai Tribunali ordinari che coinvolsero i comuni per l’assegnazione dei territori ex feudali, vi furono delle sentenze che riguardarono anche la Mensa Vescovile di Cariati.
In particolare con la sentenza del 31 maggio 1847, l’intendente di Calabria Citra, prendeva atto dell’avvenuto scioglimento dell’istituto della promiscuità, e decideva che i fondi denominati Salice, Spartivento, Forno, Olive del Vescovo, Salicicchio, Salice Grande e Martelluccio, dovevano ripartirsi tra la Mensa Vescovile, proprietaria delle terre, ed il Comune di Cariati a cui furono attribuiti 82 tomolate di territorio, corrispondenti a più di 27 ettari calcolati in base alla misura agraria di superficie in vigore in quegli anni. Nella parte che rimaneva in possesso della Mensa i cittadini cariatesi, sentenziava l’intendente, non avrebbero più esercitato alcuno uso civico.

L’undici novembre del 1833 il canonico di Cariati don Cataldo Ferraro celebrò a Terravecchia il battesimo del neonato Pietro Cataldo Felice.
Il sacerdote Natale Mercurio di Cariati il 10 luglio del 1836, con licenza dell’arciprete terravecchiese Fortunato Leo, impartiva il battesimo alla bambina Maria Filomena Altomare nella chiesa matrice di Terravecchia.

Don Cataldo Ferraro, canonico della cattedrale di Cariati, l’otto febbraio 1838 battezzava a Terravecchia il piccolo terravecchiese Saverio Francesco Ligori.

Il prelato Giovanni Lorenzo, vicario generale della Diocesi di Cariati, l’otto ottobre 1854 al fonte battesimale della chiesa parrocchiale di Terravecchia, impartiva il primo sacramento cristiano a tale Filomena Achiropita Pigneri.

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Dalle Pubblicazioni di MAURO SANTORO:

Il Martedì dopo Pasqua – Fede e devozione per la Beata Vergine del Monte Carmelo: Patrona e Protettrice di Terravecchia” – Tip. Pace – 1992.
Lineamenti di storia e vita amministrativa – Tip. Pace – 1997
Terravecchia: Il Catasto Onciario del 1743 – Storia, cultura e cittadini – Tip. Pace – 2002.
La Parrocchia di S. Pietro in Vincoli in Terravecchia – Tratti di storia – Tip. Pace – 2002.
Il Principato di Cariati e gli Spinelli suoi feudatari – Note storiche di archivio (1505-1814) – Editoriale Progetto 2000 – 2005.
Giovanbattista Spinelli conte di Cariati e duca di Castrovillari alla corte dell’imperatore Carlo V – Editoriale Progetto 2000 – 2008; nel 2009, ha ricevuto la menzione speciale per gli studi storici alla XXIII edizione del premio Troccoli – Magna Graecia (Cassano allo Ionio).
Terra Veterj – La comunità Jonica di Terravecchia tra memoria storica e modernità – Editoriale Progetto 2000 – 2011.
L’autarchia tessile del regime fascista – Il ginestrificio di Cariati (1935-1943) – Editoriale Progetto 2000 – 2014; ha ricevuto il premio Cassiodoro della Universitas Vivariensis (Cosenza).
La Madonna del Carmine che sconfigge il drago – Origine e culto del martedì di Pasqua Terravecchia – Editoriale Progetto 2000 – 2020.

Tabellionato del notaio Domenico Faragò

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