Venerdì Santo

RITI PASQUALI NEL CUORE ANTICO DI CARIATI
Testi e Foto di Assunta Scorpiniti

Il Venerdì Santo
Il Venerdì Santo

Nell’ambito della locale tradizione religiosa i riti del Venerdì Santo si svolgono nei luoghi di culto situati nel cuore antico di Cariati, con espressioni di fede e di devozione popolare autentica. Nella cattedrale, intitolata a S. Michele Arcangelo, si celebra la Passione di Cristo con l’adorazione della Croce, nel cui ambito si inserisce la lunga predica di vari sacerdoti. Il sermone è intercalato da canti tradizionali del tempo pasquale, e seguito con grande attenzione dalla folla presente nella chiesa. Al termine, si svolge la solenne processione con la bara di Cristo morto, l’Addolorata, la Veronica che, nell’atmosfera già notturna, carica di sentimenti di pietà e partecipazione al dolore di Gesù e della Madre, unisce l’intera popolazione. Al rientro del sacro corteo, che attraversa il paese antico e la Marina, c’è la visita ai “sepolcri” allestiti nelle chiesette di Sant’Antonio, dell’Annunziata e della Trinità, edificate intorno al Seicento da alcune confraternite laicali. La tradizione dei “sepolcri” è, forse, l’aspetto più suggestivo delle celebrazioni pasquali, poiché, in essi, attraverso i riti dedicati alla memoria dei patimenti e della morte di Cristo, rivive l’espressione pura della fede popolare calabrese.

un sepolcro

Fortissimo, il coinvolgimento emotivo, fin dalla fase preparatoria, quando, nelle case, con cura paziente, nei quaranta giorni precedenti vengono messi a dimora legumi, chicchi di grano e semi di lino. I vasi con i germogli (laureddi) vengono poi portati nel “sepolcro”, adorni di nastri colorati, gelsomini e margherite. Queste composizioni sono un simbolo pasquale e, insieme, un’offerta di colori e delicati profumi al Cristo Morto, vegliato nel simulacro della croce, adagiata sui bianchi cuscini, su uno sfondo di coperte tessute al telaio e lenzuola ricamate.

A custodire il luogo sono anziane donne vestite di nero, che vi stazionano per l’intera notte intonando, sul tema della passione e morte di Nostro Signore, lamenti e litanie in dialetto stretto, molto interessanti nei contenuti e nelle espressioni. Le immagini, le situazioni, i termini richiamati dai canti funebri sono, infatti, tratti dal comune vissuto, che porta a piangere un giovane figlio morto secondo una precisa modalità, ovvero in manifestazioni di dolore tipiche di un popolo abituato alla sofferenza e quindi capace di trasformare la morte di Cristo in straziante vicenda personale, a dimostrazione si un senso religioso profondamente radicato. I canti, antichissimi, sono tramandati oralmente da tempo immemorabile.

Veni, Giuvanni, veni ca ti vogghiu/
aiutimi a cianciri lu figghiu miu…/
Portimi i panni niguri ca mi cummogghi/
c’a ‘ttia t’è motru u mastru a ‘mmia lu figghiu…/

E’ uno stralcio di un canto tristissimo, espressione del dolore immenso da Maria ai piedi della Croce. Un altro canto rende visibile, sotto forma di dialogo drammatico, l’immagine di Maria, quasi sempre protagonista, che ricerca disperatamente il figlio tra coloro che ne cagionarono la morte:
“Si ‘mpesini Maria e Matalena/
esi ‘nni jettiri adduv’u rre Pilatu/
…a mmìa m’è statu fattu nu gran tortu/
teniva nu sulu figghiu/ e mò m’è mortu.

La risposta:

Si vo’ tavuli i mangiari je tinni rugni/
si vo’ cavarcaturi/
je tinni manni/
ma di tu figghiu un tinni rugni…”.

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