Rap, musica e canzoni. Riflessioni a mente fredda sul festival di Sanremo

Dopo le mie recensioni di quattro delle cinque serate dell’ultimo festival di Sanremo ho ricevuto commenti per lo più divertiti e in linea di massima di condivisione dai miei affezionati e pazienti lettori ma non è mancato chi mi ha fatto notare che ho manifestato un palese pregiudizio nei confronti della musica rap, che ha invaso il festival diventandone di fatto protagonista assoluta.

Nulla di più giustificato: in effetti non solo provo un forte pregiudizio nei confronti della musica rap, ma addirittura arrivo a ritenere che in realtà quei suoni non dovrebbero nemmeno essere definiti “musica”.

Indubbiamente, dopo la dodecafonia, dopo Pierre Boulez, John Cage e la sperimentazione esasperata che ha caratterizzato la produzione musicale a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, bisogna dire che il concetto di musica ha subìto una forte evoluzione, fino a entrare addirittura in crisi: bisogna dunque mettersi d’accordo, quando si parla di musica, sulla definizione da dare alla parola: se per “musica” si intende una qualsiasi sequenza di suoni organizzati allora il rap, indiscutibilmente, è musica come lo sono la sirena di un’ambulanza, il trillo di un campanello o il suono di un clacson; ma se invece per musica si intende un flusso di suoni governato da un ritmo, strutturato in una o più melodie e sostenuto da un flusso armonico, allora il rap non è musica visto che in esso sono quasi o del tutto assenti sia melodia che flusso armonico.

Credo che lo stesso si possa dire per la parola “canzone”, sul cui significato è opportuno riflettere, visto che il festival di Sanremo si autodefinisce “Festival della canzone italiana”. Che cos’è una canzone? Ammettendo che il rap possa essere definito “musica”, è possibile definire “canzone” la tipica mitragliata di parole di cui è costituito un brano rap?

Se ci si attiene a una definizione della “canzone” basata sull’idea della “cantabilità”, ossia si ritiene che le parole del testo debbano scorrere su una melodia e che il ritmo sia uno, ma non l’unico elemento strutturale del brano, allora il rap non è fatto di canzoni: sono canzoni capolavori come “Io che non vivo” di Donaggio, “Nel blu dipinto di blu” di Modugno, “Tu che sei diverso” interpretata da Mia Martini, e perfino “Quando ti sei innamorato” cantata da Orietta Berti; ma non lo sono le tante tirate che Amadeus ha selezionato quest’anno per rappresentare il presunto meglio della produzione pop nazionale.

Personalmente, ritengo che il mondo della canzone propriamente detta sia piena di cose belle (restando in Italia, oltre ai pezzi di Donaggio, Modugno e Mia Martini che ho già citato potrei aggiungere ad esempio “Maledetta Primavera”, “Gli uomini non cambiano”, “Resta cu mme”, “Tu si ‘na cosa grande”, “Anna e Marco”, “L’anno che verrà”, “Diamante”, “La donna cannone”, “I giardini di Marzo”, “Emozioni”, “Io che amo solo te”) e cose brutte se non orribili (come “Permette signora”, “Papaveri e paperi”, “Vecchio scarpone”, “Io tu e le rose”, “Voglio andare a vivere in campagna”, “Via dei ciclamini” e l’orrenda “Merdman”, il più tragico sbaglio di Lucio Dalla). Belle o brutte che siano, quelle che ho elencato sono tutte canzoni: ossia è possibile riconoscerle non solo dal testo e dal ritmo, ma anche da una linea melodica musicalmente riconoscibile e ripetibile: insomma si possono canticchiare.

Con pochissime eccezioni, il festival di quest’anno ha proposto brani assolutamente non cantabili, adeguandosi a un mercato che, come già ho notato, è dominato dai ragazzini ai quali non interessa nulla della cantabilità: essi in linea di massima sono attratti dall’intensità del ritmo e dalla potenza del basso che lo sottolinea. È una questione di mercato e Amadeus, che non è stupido, lo ha capito ed ha selezionato brani che rispondono alle richieste del mercato facendo così felici i produttori, gli autori, gli interpreti e i fruitori di questo genere di prodotti.

Ma credo di essere facile profeta se affermo che nulla di ciò che è stato proposto in questa edizione (e non solo questa) del festival sopravviverà alla prova del tempo come invece è successo ai brani sia belli che brutti che ho elencato, i quali in virtù della loro cantabilità sono entrati nella memoria collettiva.

Insomma la rassegna, che non fa tra l’altro più nemmeno finta di essere “festival della canzone” ma è “festival dei cantanti” (nelle graduatorie il titolo dei brani era in piccolo, a risaltare era il nome degli interpreti), punta sui fenomeni, sui personaggi più o meno azzeccati che i discografici gettano in pasto ai loro piccoli e poco esigenti clienti. Agli uni come agli altri importa ben poco che il pezzo passi alla storia e diventi un “evergreen”: ai discografici importa che durante la sua breve vita il pezzo produca quanto più reddito possibile; quanto ai clienti, nel giro di tre mesi essi si saranno scordati del tutto del festival, dei suoi rap e dei suoi protagonisti, tutti presi come saranno a consumare (consumare, non ascoltare) altri rap e altri protagonisti.

Aspetto di essere smentito dai fatti.

E già che ci sono, aspetto anche di sentire qualcuno, in mezzo alla via, che canticchia il brano di Michielin e Fedez, quello di Ghemon, di Gio Evan, di Gaia, o Willie Peyote. Ma la vedo dura.

Giuseppe Riccardo Festa

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