Se il senatore fa l’indiano

La vicenda del presunto stupro subito da una ragazza ad opera di uno dei figli del presidente del Senato La Russa non sarebbe molto diversa da tante altre analoghe vicende, in cui la linea di difesa dell’uomo accusato di abusi, e di chi ne prende le parti, è regolarmente la stessa: il rapporto era consenziente, per giunta lei è pure è una ragazza di facili costumi, va in giro di notte, era già “fatta” prima che lui “se la facesse” (cfr. Filippo Facci), e via così: niente di nuovo sotto il sole, da questo punto di vista.

Ma c’è un aspetto, nel caso specifico, che suscita in me una particolare curiosità, ed è quello del telefonino di Apache La Russa la cui SIM, abbiamo appreso, non è intestata al giovane indiano ma al suo augusto, senatoriale e presidenziale genitore.

Come mai? Anche se ha un po’ la fisionomia da enfant gâté, il ragazzo è maggiorenne, è titolare di capacità di agire (parlo di quella giuridica, anche se di capacità ha dimostrato di possederne anche altre, di cui sicuramente è molto orgoglioso) e il suo papà avvocato lo sa benissimo. Come mai, nel fargli dono dello smart-phone, il genitore ha pensato bene di non intestare all’amato rampollo la SIM, intestandola invece a sé medesimo?

Sorge il dubbio che, pur avendo dato al figlio un secondo nome quanto mai aggressivo e sinonimo di autonomia e spirito di iniziativa (gli apache non erano certo mammolette e alle giacche azzurre, a suo tempo, diedero parecchio filo da torcere), ci sia stato nell’attuale presidente del Senato un moto di tenera e affettuosa volontà protettiva, tale da indurlo ad estendere anche alla prole, per quanto possibile, lo scudo protettivo delle immunità che i parlamentari si sono previdentemente autoattribuiti.

La cosa sembrerebbe peraltro inutile, stanti le dichiarazioni che questo premuroso papà ha rilasciato subito dopo la notizia della denuncia a carico del suo più giovane rampollo: il senatore La Russa ha pubblicamente affermato di aver interrogato personalmente Apache, non credo dopo averlo legato al palo della tortura, ma piuttosto dopo aver fumato con lui il calumet della pace, e di averne constatato la totale e indiscutibile innocenza.

Dunque il dubbio sopra ventilato non ha senso: il pargolo è innocente, non ha nulla da nascondere, la ragazza era consenziente. Rebus sic stantibus, la SIM può essere tranquillamente esaminata da tutti i giudici di questo mondo, nulla ne emergerà che possa macchiare le bianche piume del copricapo di Apache.

O no?

Perché il telefono ha potuto essere sequestrato e la SIM no? Perché, senatore La Russa, lei ha opposto il privilegio della sua impunità – pardon: il suo diritto all’immunità – o almeno non ci ha rinunciato, impedendo ai magistrati di prendere piena visione di ciò che quel telefono poteva raccontare?

Perbacco, senatore La Russa! Lei ricopre la seconda carica dello Stato! Lei deve dimostrare che di fronte alla legge nessuno deve nascondersi dietro cavilli legali e più o meno speciose estensioni di privilegi, non le pare? Lei appartiene a quella destra politica che non fa che parlare di legalità, di ordine, di rispetto della legge. Coraggio, senatore: dia l’esempio!

Senatore, scusi, perché non risponde? Senatore, ha sentito? Presidente, dico a lei!

Ah, aspetti, ho capito: lei i suoi figli li ha chiamati Cochise, Geronimo e Apache, tutti nomi indiani; ma in realtà, a quanto pare, qui se c’è uno che fa l’indiano, quello non è né Cochise, né Geronimo né Apache.

Qui se c’è uno che fa l’indiano, presidente La Russa, quello è lei. Augh.

Giuseppe Riccardo Festa

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