Salvini a Pontida: a furia di cambiare faccia, si finisce per perderla.

Gratta il Salvini, trovi il Borghezio. La kermesse di Pontida, con le magliette dalle scritte più o meno trucide  (sul tipo “Date Lampedusa all’Africa”) e la consueta esibizione fra il kitsch e il ridicolo di elmi cornuti e rivendicazioni di secessione e indipendenza per la fantomatica Padania, rivela ciò che in realtà tutti già sappiamo da sempre: a dispetto della pretesa di Matteo Salvini di dare al partito una dimensione nazionale, la Lega resta un movimento basato sul localismo, sull’egoismo e sul provincialismo più beceri e, in fondo, patetici.

La Lega – ma anche Salvini, a dispetto degli slogan – sopporta a fatica la convivenza col resto d’Italia, ed è proprio in questa insofferenza che si radica il suo sostanziale fallimento, poiché Salvini non riesce, né può riuscire, a risolvere la contraddizione di fondo che caratterizza la sua azione politica, che dopo il fuoco di paglia del successo di qualche anno fa lo ha condannato a una progressiva marginalizzazione tale da costringerlo, pur di stare al governo, alla sofferta convivenza, in subordine, con Giorgia Meloni

Dimenticando i famosi 49 milioni di Euro sottratti allo Stato dal suo partito, il leghista duro e puro (e sotto sotto anche Salvini) continua a pensare che Roma sia ladrona, che il terrone sia sfaticato e ladro, che l’africano porti malattie e delinquenza, che solo la Lombardia e il Veneto (il Piemonte già di meno) siano terre sane e abitate da gente laboriosa e onesta. Il raduno di Pontida ne è la prova più evidente, ove di prove ci fosse bisogno.

Insomma, la Lega era, è, e non può che essere, un movimento alla cui base c’è voglia di isolamento, di rifiuto del diverso e di negazione della solidarietà, se non esercitata nell’ambito ristretto del proprio gruppo tribale. L’identificazione che Salvini fa con il lepenismo (dopo la figuraccia dell’identificazione col putinismo) è una chiara manifestazione di queste caratteristiche. Ma il nazionalismo di Marine Le Pen, per quanto sia anch’esso provinciale, razzista e miope, si estende all’intero territorio francese (così come quello di Putin investe l’intera area dell’ex impero sovietico) mentre quello dei leghisti duri e puri si limita alle sole regioni delimitate a sud dal Po e a nord dalle Alpi. Matteo Salvini, diviso tra l’ambizione di essere un leader nazionale o addirittura internazionale e il piacere di fare il capopopolo a Pontida, si muove illudendosi che nessuno si accorga del suo giocare su due campi; ma non serve certo un acume particolare per rendersi conto di quanto questo gioco sia maldestro, e anche nel suo partito non mancano i mal di pancia.

C’è ancora chi, a sud del Po, continua a credere, o a far finta di credere, nella validità di quel gioco, ma si può scommettere che anche fra costoro l’ammirazione verso l’ormai incerto baluginio dell’astro salviniano finirà per scemare, anche perché è legittimo il dubbio che quell’ammirazione fosse più che altro, già dall’inizio, un puro e semplice saltare sul carro del vincitore: oggi gli specialisti di questo sport, che in precedenza si appendevano alle sponde del berlusconismo e per una breve stagione viaggiavano sulla scia del renzismo, oggi si affollano sulla carrozza del melonismo, in attesa di individuare un nuovo o una nuova capopopolo da adorare, che comunque non sarà più Salvini. In ogni caso è facile immaginare che del leghismo, al Sud, ben presto non resterà nulla.

E al Nord cosa resterà, del leghismo salviniano, oltre al folklore degli elmi cornuti e degli striscioni inneggianti all’autonomia? Resterà qualcosa delle idee di Salvini, al Nord?

La vedo dura. Bisognerebbe prima dimostrare che Salvini, di idee, ne ha; ma visto il suo continuo passare da un’idea all’altra, con la stessa rapidità con cui si cambia le felpe, il dubbio che quelle idee siano davvero sue, e non prese al volo secondo la convenienza del momento, è ben più che legittimo.

Giuseppe Riccardo Festa

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