Jacopa dei Settesoli, la ricca amica di Francesco

Fra le tante cattiverie che mi diletto di coltivare, alcune riguardano san Francesco a proposito del quale, tanto tempo fa, ho concepito questo aforisma: Non sarà mai possibile dimostrare che il più umile dei santi non fosse molto orgoglioso della sua umiltà.

Questo aforisma mi è tornato in mente leggendo questo passo del libro di Lucia Tancredi, appena pubblicato da Città Nuova, dedicato non al “poverello di Assisi” ma a Jacopa dei Settesoli, sua ricchissima amica e patrona. Sono parole che l’Autrice mette in bocca, appunto, a Francesco:

Perché c’è una lussuria anche nella povertà, lo vedo in tanti nuovi Fratelli che, a forza di minorità, si ingegnano ad essere più bigi, più frustri, più miseri. Come se con l’abito dovessero misurare l’intenzione. Per cui, se è broccato o feltro è lo stesso attaccamento. Io mi porto il privilegio della povertà, voi [Jacopa] l’onore della ricchezza. Purché lo si porti naturalmente come una stagione. Servono cortesia e distacco, tanto poi ci pensa il tempo a riprendersi tutto, la mia tinta di cenere e il vostro emblema d’oro.

Pochissimi, anche tra i più accesi veneratori di san Francesco, hanno una sia pur pallida idea di chi fosse Jacopa dei Settesoli così come, d’altra parte, ben pochi pensando ad Agostino d’Ippona, uno dei padri della Chiesa, si prendono la briga di interrogarsi sulla figura della madre, quella Monica fatta santa dalla Chiesa più che altro perché era sua madre e perché era vedova, o pur ammirando Antonio Gramsci sanno qualcosa di Giulia Schucht, la sua sfortunata moglie che pure tanto ha contribuito a rivestire di umanità il pensiero del grande martire della libertà, o ancora, pensando ai grandi del pensiero medievale, si soffermano su Ildegarda di Bingen, rivoluzionaria badessa che nel XII secolo scriveva, studiava la natura, componeva musica e insegnava alle sue monache ad essere liete, a cantare, a danzare e ad amare la vita, anziché macerarsi nella sofferenza tanto cara alla Chiesa di quel tempo, e non solo di quello.

Lucia Tancredi s’impegna col piglio della missionaria a riscoprire i personaggi femminili che la storia in generale e la storia delle Chiese in particolare (che sia la Chiesa cattolica o la Chiesa comunista non fa molta differenza) ha posto nell’ombra dominata com’è, la storia, da una visione fallocentrica che la vuole modellata, decisa, determinata e poi raccontata solo da uomini.

È successo a Monica, è successo a Giulia ed è successo anche a Ildegarda che solo qualche anno fa, mercé l’evoluzione dei tempi (ma non è detto che duri) il Vaticano si è deciso ad elevare al rango di Dottore della Chiesa, pur continuando comunque a non ritenere le donne degne di ricevere il sacerdozio.

Ed è successo anche a Jacopa, personaggio troppo imbarazzante per la storiografia ufficiale di Francesco, quella fissata da Bonaventura da Bagnoreggio secondo le desiderata, diremmo oggi, del regime: una storiografia che da un lato ne attenuò le ruvidezze, rimuovendo ad esempio il divieto di possedere beni materiali che era alla base del primo francescanesimo, dall’altro ne rimosse gli aspetti non conformi al pensiero dominante rendendo del tutto marginale, appunto, la figura di Jacopa: una donna, per giunta ricca e per giunta scandalosamente familiare con Francesco.

Lucia Tancredi, col suo stile adornato e immaginifico, anche in questo romanzo storico, come già in Io, Monica, si immedesima nella protagonista del suo racconto. Avendo scritto di Monica di Tagaste e Ildegarda di Bingen – spiega – conoscevo bene la sensazione meravigliosa e terribile di tuffarmi ogni giorno in un oceano ed uscirne intera, perché questo significa occuparsi delle mistiche.

Pur se basato su un certosino lavoro preparatorio di minuziosa documentazione, infatti, Jacopa dei Settesoli è comunque un romanzo: è soprattutto la storia dell’incontro di due anime filtrata attraverso il prisma della sensibilità femminile. È Jacopa a parlare, in prima persona, del suo incontro con Francesco, quel matto che sta solo ritto in mezzo al prato e con le braccia fa gesti d’aria predicando agli uccelli. E poi della nascita della loro amicizia, che per Lucia Tancredi è amore: il primo esempio, forse, di quell’amore totalizzante ma esclusivamente spirituale che poi sarà al centro della scuola stilnovistica. Amicizia e amore apparentemente improbabili, lei così ricca e potente, lui così caparbiamente povero. Solo apparentemente, però, perché il pensiero francescano – quello originale, non quello rimaneggiato da Bonaventura ad usum Ecclesiae dopo aver ordinato la distruzione di ogni documento preesistente – metteva la libertà al centro dell’esistenza umana, tanto è vero che Francesco non pretendeva che chi lo seguiva si dedicasse alla povertà con la stessa caparbia, feroce e totale dedizione che le dedicava lui, una dedizione che oggi definiremmo maniacale, se non mitomania.

Il racconto procede per 327 pagine e 58 capitoli, oltre alla nota e ai ringraziamenti finali, come un flusso di pensieri, in modo tipicamente femminile e, direi, tancredesco, se mi si concede il neologismo: colorato e minuzioso di sensazioni, impressioni e sentimenti e similitudini poetiche e delicate, spesso spiazzanti, non di rado ardite, fino al racconto toccante del momento della morte di Francesco e del suo addio a Jacopa, una pagina struggente e dolcissima, e poi ancora, con malinconia e una certa amara ironia, di alcune delle vicende che hanno segnato la storia del francescanesimo.

Non è una lettura per tutti: richiede un approccio non superficiale e un grado di cultura commisurato alla ricchezza della inesauribile tavolozza linguistica dalla quale Lucia Tancredi, studiosa e cultrice infaticabile dell’universo storico e letterario, qui come in ogni sua fatica attinge a piene mani per rivestire e adornare il suo racconto, o almeno (è il mio caso) la disponibilità ad ammettere che certe letture esigono approfondimento e impegno.

Ed anche amore, perché non si può leggere una storia d’amore così intensa, commovente ed avvolgente, se di amore non se ne sa provare.

Giuseppe Riccardo Festa

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