Un popolo di poeti, di santi, di navigatori… e di giudici di corte d’Assise

Io, ovviamente, come chiunque, non so ancora quale sarà la sentenza del processo d’appello a Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. E non avendo una conoscenza adeguata delle carte processuali, né la necessaria competenza tecnica, mi astengo dall’esprimermi circa la sua innocenza o colpevolezza. Mi irritano, però, le dichiarazioni dei suoi legali, i quali affermano che l’imputato “ha ancora fiducia nella giustizia”. Il che equivale a dire: “è stato condannato ingiustamente in primo grado, ma conta di essere assolto adesso”.

Mi irrita anche che, come al solito, la figura della vittima finisca per sfocarsi e impallidire, diventando una sorta di nebulosa immagine di sfondo, mentre tutti i riflettori sono puntati sull’imputato, che diventa una sorta di divo; e che una marea di gente, pur non avendo idea di cosa dicano le carte processuali, di quali siano le prove raccolte dall’accusa, del loro peso e della loro rilevanza, abbia deciso che “il povero” Bossetti è un capro espiatorio, un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica: in buona sostanza, una vittima a sua volta. Sul forum di un giornale ho letto anche che secondo qualcuno bisognava giustificare le spese enormi sostenute durante le indagini per migliaia di esami del DNA, e quindi si è trovato “in fretta e furia” un colpevole.

Io, dicevo, non ho competenza in materia: non sono un avvocato, e meno che meno un magistrato. Ma idiozie di questo calibro, pure con la poca competenza che ho in materia di diritto penale, manco mi sogno di spararne.

La magistratura inquirente (in estrema sintesi: i Pubblici Ministeri) ha svolto le indagini, sostenuto i costi, raccolto le prove, individuato un imputato. A decidere se condannare o assolvere è un altro ramo della magistratura, quella giudicante, che per definizione non deve avere nulla da spartire, a parte il dipendere dallo stesso ministero della Giustizia, con quella inquirente.

La legge, poi, prevede i famosi tre gradi di giudizio: dunque, l’imputato ha la ragionevole speranza che, se in primo grado il tribunale lo ha condannato ingiustamente, all’errore si possa rimediare in appello, e poi ancora in Cassazione; e perfino, visto che siamo in Europa, presso la Corte Europea di Giustizia: lo si è visto col caso Contrada, anche se con uno spaventoso ritardo.

Errori giudiziari, purtroppo, ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno; ma sostituirsi ai giudici o peggio giudicarli, dall’esterno e ragionando su basi emotive e non razionali, non serve a prevenirli. Serve soltanto ad alimentare il solito, inguaribile e pernicioso vizio di noi italiani di pretendere di saperla sempre più lunga di chi (medici, giudici, ingegneri) ha i titoli per decidere, e di dividerci, sempre e comunque, in fazioni: bianchi o rossi, complottisti o benaltristi, cattolici o laici, settentrionali o meridionali, eccetera. E di innocentisti e colpevolisti, decidendo di aderire all’una o l’altra fazione, beninteso, in base alla simpatia o all’antipatia che l’imputato ispira.

Potremo mai essere un Paese serio? Ne dubito.

Giuseppe Riccardo Festa

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