Quel giorno il tempo si era girato molto male. Non faceva sperare niente di buono. In fondo, il centro dell’estate era già bello e superato. Ormai il piacere candido della bella stagione era più che consumato. Decisi, allora, di passare dal possibile all’impossibile. Al solito giro a piedi per il paese, evitando il mare in burrasca, preferii salire verso Terravecchia. Nei suoi riguardi avevo sempre avuto un dolce debole. Mi piacciono le micro comunità. Vivo con particolare trasporto ed ansia il loro futuro, purtroppo segnato dall’inarrestabile spopolamento. Terravecchia bella e ridente in collina sovrasta Cariati. Siamo nel basso ionio cosentino. In un pezzo di Italia minore molto poco sviluppato e abbandonato sul piano dei servizi pubblici. Il luogo dove da diversi anni trascorro le mie estati, alla conquista della pace e tranquillità.
Ammirare Terravecchia dal basso, dalla costa cariatese rappresenta per me da sempre un momento magico, ancora di più se lo faccio di sera, quando in lontananza si scorgono le flebili luci. Uno spettacolo ancora più unico, quando alzo lo sguardo dai pescherecci il 16 agosto, durante la processione a mare in occasione della ricorrenza di San Rocco. Appare così come un presepe, arroccato su una collina, che mi fa viaggiare con la mente, pensando ai pochissimi terravecchiesi che ancora popolano il centro abitato. Davanti alla giornata di cattivo tempo presi l’auto e mi diressi verso Terravecchia. Uscito dal centro abitato di Cariati entrai in un altro mondo. Tornanti su tornanti che ti portano quasi a toccare il cielo.
Quel tempo fatto di nuvole basse e nere, combinate con un discreto vento, mi riempirono l’animo come avveniva da sempre. Mi sentivo più leggero e scarico di pensieri. Dalla strada arrivava un odore di terra appena bagnata dopo lunghi giorni di forte caldo. Avevo una meta, percepii che Terravecchia si rilevasse quel giorno piena di sorprese. Avevo l’atteggiamento giusto, aperto a trasgredire il mio pensiero. Il cielo era scuro e tratteneva la pioggia torrenziale annunciata per la mattinata, che lasciava cadere fili sottili. Il vento smuoveva le piccole foglie degli ulivi nelle campagne circostanti. Arrivai così baldanzoso in piazza. Su quella terrazza da dove si scorge un panorama mozzafiato. Una balconata sul mare. Una poltrona in prima fila per uno spettacolo che non ha eguali.
Nel vicino bar in una piccola vetrinetta c’erano dei cornetti freschi che mostravano il dorso ricoperto dai grani di zucchero ed erano una tentazione irresistibile. Le poche persone presenti non mi conoscevano. Si ammutolirono davanti a quel forestiero. Giusto per una comunità, dove si conoscono gli uni con gli altri. Quasi a contarsi ogni giorno per verificare, che fine ha fatto qualcuno e perché non si vedesse in giro. Un campanello d’allarme che rappresenta la vera solidarietà che aggrega un piccolo centro. Imprevedibilmente si aprì, dopo di me, la porta. Sentendo il rumore mi girai di scatto. Comparve una donna di mezza età di nome Eleonora che tutti salutarono con grande rispetto. Mi domandai chi mai fosse. Mi assalí la curiosità. Mi venne voglia di farmi avanti e presentarmi e così feci. Lei rimase meravigliata della mia iniziativa. Non si tirò indietro.
Le offrii un caffè che fa tanta compagnia in noi napoletani. Anche quando siamo fuori dalla nostra città. Il caffè è un segno di amicizia invitarlo a prendere. Eleonora non si meravigliò. Anzi. Si incuriosì su chi avesse davanti e su chi fossi. Altrettanto io. All’uscita il cielo aveva smesso ogni indecisione e venne giù acqua fredda e il basolato della piazza divenne una lastra scivolosa. Non potei che scappare in auto e mettermi al riparo. Salutai e scomparii. Lasciando dietro di me un grande vuoto. Il paesaggio era completamente cambiato. Mentre scrivevo all’imbrunire questo diario di viaggio arrivò sul cellulare una telefonata. Era lei che avevo appena lasciato la mattina. Fu un sollievo. Avevo colpito.
Era una “passione calma”. Ottima cosa. Perché sa Dio quanto bisogno ci sarebbe, in un mondo survoltato come il nostro, di un modo di procedere più sereno, quieto, controllato. Parliamo un po’, perlopiù la sto ad ascoltare, perlopiù faccio fatica a capire le cose che dice, e questo mi intriga, mi piace molto. Lei studia, lavora e forse è anche un’artista, lei credo non lo sa e io faccio finta di non saperlo. Sente e pratica la struggente necessità di fotografare, ogni cosa, ogni situazione, ogni sensazione e sentimento a cui pensa di appartenere e da cui è posseduta. Credo sia brava. La sua fotocamera, come tutti gli strumenti da lavoro segnano il fervore di una passione. Magicamente è anche la sua, come magicamente è la splendida Terravecchia.
Nicola Campoli
nb: la foto è del Maestro Michele Cipriotti
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