Riposa in pace, piccolo, dolce, fragile Seid.

Possa il piccolo, dolce, fragile Seid riposare in pace.

Non indago, perché non è giusto indagare, sul motivo per cui, nonostante l’atto d’accusa chiaro, doloroso, preciso e circostanziato col quale il giovane ha spiegato il suo gesto, i suoi genitori adottivi si sono affrettati ad affermare che il razzismo di cui egli si è dichiarato vittima non è la causa del suo suicidio, anche se fatico a respingere l’idea che essi in realtà rifiutino di prendere atto di essere stati ciechi di fronte alla realtà che il figlio stava subendo, non solo fra la gente ma anche, così dice la sua lettera, in famiglia.

Rispetto dunque il dolore di questi genitori che hanno sottovalutato quelle frasi, quelle allusioni, quei riferimenti a Mussolini che il giovane dice di aver sentito anche fra i suoi familiari: la verità dei fatti sta in quella lettera e in quella bara, in cui giace il corpo di un giovane forse troppo sensibile e forse troppo fragile ma certamente per troppi, fra coloro che aveva intorno, troppo scuro di pelle per essere accettato come un qualsiasi altro membro della comunità.

Meno rispetto sono indotto a provare nei confronti di quei commentatori, primi fra tutti i leader delle destre italiane Salvini e Meloni ma anche tanti loro simpatizzanti, i quali, dopo aver espresso un frettoloso cordoglio, tanto frettoloso da destare il sospetto che sia in realtà alquanto peloso, nei loro commenti, a dispetto del contenuto chiaro, agghiacciante, doloroso e inequivoco della lettera di Seid, si sono affrettati a farsi scudo proprio della dichiarazione dei suoi genitori adottivi per sottolineare che, dunque, il suicidio del giovane non va ascritto al razzismo di cui era fatto segno.

La fretta sospetta e precipitosa con la quale si sono gettati su quella dichiarazione e il loro appellarsi alla fragilità di Seid denunciano in modo chiaro e inequivoco, in realtà, quanto radicato, profondo e feroce sia il razzismo dal quale costoro sono animati: quella dichiarazione è il loro alibi, il loro modo di chiamarsi fuori dalle responsabilità che hanno per il clima di intolleranza, di odio e di diffidenza che, per qualche pugno di voti, hanno creato ed alimentano nel Paese.

Quella fretta denuncia il loro pensiero più intimo, il loro sentire più vero che si può sintetizzare nella triste, squallida e miserabile battuta tanto cara alla gente come loro: “non siamo noi che siamo razzisti, è lui che è negro”. E infatti nemmeno la morte – di Seid, come dei tanti disgraziati che naufragano e affogano nel mare e in mezzo all’indifferenza – scuote le loro coscienze.

D’altra parte la coscienza, per gente come questa, è come il coraggio per il don Abbondio manzoniano: don Abbondio non può ricorrere a un coraggio che non ha; e quanto alle coscienze di Salvini, Meloni e dei loro simpatizzanti (o dovrei scrivere camerati?), non si può scuotere qualcosa che non esiste.

Giuseppe Riccardo Festa

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