Sanremo: una prima serata da dimenticare, con due sole eccezioni ma non in gara.

Tanto per cominciare in bruttezza, il “prima festival” è condotto dalla moglie di Amadeus, da una ragazzotta e da un tizio la cui spontaneità e il cui entusiasmo sono tanto artificiali e fasulli da ispirare quasi tenerezza. Lo scopo reale dei pochi minuti della loro evitabilissima esibizione è la pubblicità alla Suzuki, “auto ufficiale del festival”. Si sa che i festival hanno bisogno di un’auto ufficiale, soprattutto questo: considerata la quantità di gente che lo manda a quel paese, un mezzo di trasporto gli fa comodo.

Il festival propriamente detto inizia con un siparietto al buio di Fiorello e Amadeus; poi appare il palco dell’Ariston, una specie di astronave che fa pensare a Guerre Stellari; Amadeus però  non è Darth Vader e nemmeno Obi Wan Kenobi ma al massimo uno Yoda troppo cresciuto. Legge una sua lettera che sembra un discorso a Montecitorio per avere la fiducia.

Entra Fiorello che fa il gay cantando una versione rockeggiata di “Grazie dei fior”, ma non è divertente. E non lo è nemmeno dopo una specie di monologo in cui crede di fare lo spiritoso usando la parola “culo”.

Il festival vero e proprio comincia con le nuove proposte, quattro esordienti due dei quali passeranno al turno successivo. La prima delle nuove proposte è un tale Gaudiano che sembra un Pierrot ma in celeste. La cosa più notevole del personaggio sono i pantaloni alla saltafossi. Canta “Polvere da sparo”, il testo è suo. E consiste in un profluvio di parole che fatica a far entrare tutte quante nello spazio delle battute musicali. Si percepisce che dice “cuore”, guarda quanto è originale. Insomma è un mezzo rap, la parola cuore ricorre, affiancata anche da “lacrime”. Un rap pensato per Sanremo, insomma. Come è tipico dei rap, la musica ha una funzione molto marginale, e infatti non si può dire che ce ne sia molta.

La seconda delle nuove proposte è Elena Faggi che indossa un abito da educanda ma in lamé. Dirige Beppe Vessicchio, presenza sacra e scaramantica di tutti i festival di Sanremo. Elena Faggi canta “Che ne so”, testo suo incomprensibile perché consiste in un birignao rappeggiante, ma almeno non infila settanta parole in ogni misura musicale come faceva quello di prima. La sola parte del testo che si capisce è una serie ribattuta di “uh-uh-uh”, il resto è incomprensibile.

Terza delle nuove proposte è Avincola, che ha un nome che fa pensare a un volatile in via di estinzione e invece è un poveretto baffuto vestito in arancione con in mano un pallone e un cappellino in testa. Il brano s’intitola “Goal” e questo spiega la patetica messa in scena. Poi comincia a cantare e tira fuori una voce da gatto raffreddato, un falsetto che ricorda in modo imbarazzante gli “Homo sapiens”, vincitori del lontano festival del 1977 quelli di “Sei bella da morire”, una canzone orrenda che vinse. Questa però, bisogna ammetterlo, non è brutta come “Sei bella da morire”, che almeno aveva una melodia: questa è molto più brutta.

L’ultima delle nuove proposte di stasera è un altro cantautore, tale Folcast, che canta “Scopriti”. Si è portato la chitarra ma se la lascia dietro la schiena e prende in mano il microfono. Mah. Anche lui cita il cuore, come tutti i precedenti. Di tutte le canzoni delle nuove proposte è l’unica che tenta di abbozzare una melodia, ma purtroppo non ci riesce. Comunque, pur brutta e sguaiata, è l’unica che in qualche modo prevede una sorta di interpretazione cantata (per le altre il concetto di recitazione di una filastrocca è più adeguato).

Finite le nuove proposte altro siparietto di Amadus e Fiorello, in attesa di sapere chi supera la prova, che sono Folcast e Gaudiano, quello vestito da Pierrot.

Speriamo che i cosiddetti “big” siano meglio.

Dopo la prima infornata di pubblicità, balletto con Amadeus e Fiorello che cantano. Ballerine attrezzate con piume di struzzo, con esibizione di cosce e natiche in una performance imbarazzante, che fa pensare all’avanspettacolo del dopoguerra.

Viene riproposto come ospite Diodato, il vincitore del festival dell’anno scorso, che ho perso per andare a sciare con in miei figli. Ascoltando la canzone mi rendo conto di non aver poi perso molto. E mi dico malinconicamente che sarebbe stato bello perdere anche questo, di festival, per andare a sciare con i miei figli; ma di sciare, quest’anno, non se ne parla e così mi tocca non solo ascoltare le canzoni di quest’anno, ma anche il vincitore dell’anno scorso.

Ed entra in gara il primo big, Arisa, col solito look del tutto diverso da quelli precedenti (cambiare look è l’unica costante nell’esistenza di Arisa). Canta “Poter fare di più”, scritta e composta da Gigi D’Alessio, il che non depone a suo favore. Primi versi borbottati a livello di borborigmo, credo che parli del solito amore finito. Si passa dal borborigmo allo strillo. Nell’insieme una canzone alla Sanremo secondo la tradizione antica, quella di prima del rap e di “Luca era gay” che hanno trascinato il festival in abissi di abiezione non prima immaginabili: insomma una canzone che rispetta i più biechi standard sanremesi del passato e perciò di quelle che scivolano via senza lasciare traccia, come l’acqua nel bidet.

Entra in scena uno dei due aspetti positivi del Sanremo di quest’anno: l’attrice Matilda De Angelis, spigliata, disinvolta, minuta, graziosa e simpatica.

Presenta lei la seconda canzone in gara, interpretata dal duo Colapesce e Di Martino (nomi da romanzo di Verga: manca solo Rosso Malpelo e poi siamo a posto). I due cantano “Musica leggerissima”. Titolo adeguato: è tanto leggera, in effetti, da essere inconsistente. E poi che senso ha cantare in due se si canta all’unisono? Mah. Sono imbarazzanti, anche per via dei vestiti color pastello e degli sguardi che si scambiano, manco stessero cantando la critica della Ragion Pura di Kant. Invece è la solita menata che sfocia in una specie di rap e che tentando di essere meno noiosa si “arricchisce” col contributo di una ragazza sui pattini che entra sul finale, anche lei vestita in color pastello, ma almeno con un costumino da bagno rosa che a loro starebbe malissimo. Lei invece è carina.

E poi entra il calciatore Ibrahimovich, di cui so solo che a vederlo mi sta antipatico, ma io di calcio non capisco niente. Gioca a fare l’arrogante, cosa che evidentemente secondo gli autori gli riesce bene e perciò gli hanno scritto il testo tenendone conto. Tolgo l’audio durante la sua esibizione, perché sentite le prime battute non mi diverte nemmeno un po’.

Terzo cantante tale Aiello, portatore sano (vabbè, si fa per dire) di pesanti orecchini, che canta “Ora”, testo e musica suoi. Oddio, testo… sembra di più una serie di spasmi, di ansiti da crisi epilettica. Del testo si capisce solo la parola “ora”, che forse per questo dà al pezzo il titolo. Si muove sul palco con sculettamenti imbarazzanti e poi arriva a una preoccupante crisi isterico/canora. Di rado mi è capitato di ascoltare qualcosa di così irrimediabilmente brutto.

Doveroso omaggio di Amadeus al personale medico che si sta sacrificando per curare i malati di Covid-19, e poi pubblicità. A vincere la gara dello spot più insopportabile, a parte quello fuori concorso di poltrone e sofà, è quello della cellulina scema che beve acqua Lete.

Francesca Michielin e Fedez sono i quarti in gara. Lui è famoso essendo la personificazione del tappeto musicale (c’è chi dice che si sia fatto tatuare anche le tonsille, ma sono maldicenze); la Michielin ha dismesso l’aspetto da ragazzina del collegio per trasformarsi in una specie di vamp. Cantano, o recitano, o scandiscono, “Chiamami per nome” anzi chiamami per nomè (è così che la cantano, o recitano, o scandiscono), che fra gli autori annovera anche Mahmud, e purtroppo si sente. Una strana fascia che sembra di carta igienica unisce, chissà perché, i microfoni dei due interpreti. Il pezzo è di una bruttezza assoluta, del tutto privo di musica, di melodia, di qualunque cosa che possa associarsi al concetto di “canzone”: probabilmente vincerà il festival.

E poi arriva Loredana Bertè, la fatta (o strafatta, a giudicare da come è conciata) dai capelli turchini. Le viene dedicato uno spazio speciale, forse per ricompensarla della delusione dell’anno scorso. Ascoltarla, e soprattutto vederla in quella tragica minigonna che per giunta insiste a sollevarsi sulle cosciotte, e pensare che a una certa età tutti dovrebbero avere diritto a un dignitoso silenzio è un tutt’uno. Uno la guarda, e la ascolta, e subito pensa alla bravura, al talento, alla personalità magica. Sue? No, della sorella brava, quella Mia Martini purtroppo scomparsa troppo presto. Poi uno la riguarda e pensa: ecco una donna distratta: ha perso da anni il senso del ridicolo e ancora non se n’è accorta. Però ben venga la denuncia che fa dei femminicidi.

Speriamo in Max Gazzè, che entra travestito da Leonardo da Vinci. Canta “Il Farmacista”, basata su “Si può fare!”, una citazione da “Frankenstein Junior”. Il ritmo è il solito dei suoi pezzi, e non solo il ritmo. Peccato: sa di già sentito, come se Gazzè continuasse a scrivere sempre la stessa canzone. Comunque è il pezzo meno brutto sentito finora.

Bene il riferimento di Amadeus a Patrick Zaki, vittima dell’indecente regime egiziano.

E poi per la sesta volta a Sanremo si esibisce Noemi, la ragazza dai capelli color aragosta. Stavolta indossa un bel vestito da sera in lamé e canta “Glicine”. Inizio borbottato, tanto per cambiare. Ho proprio l’impressione che l’unica cosa bella della canzone sia il fasciante abito in lamé indossato dalla cantante.

Poi gradevole siparietto di Fiorello con Amadeus e scherzo sui nomi delle dita dei piedi. Fiorello scherza anche sull’onfalo, con allusioni al basso ventre, ma chiunque abbia studiato un po’ di greco o frequenti la Settimana Enigmistica sa che si tratta dell’ombelico.

Purtroppo il festival conferma di consistere sostanzialmente in una rassegna di spot pubblicitari intervallati ogni tanto da una canzone, di solito brutta. E per ascoltare le canzoni di solito brutte bisogna subire le infornate di spot pubblicitari. Pazienza.

Ma non bastano gli spot: c’è pure, come se non bastasse, l’ospite fisso, Achille Lauro. Entra in scena travestito da carciofo technicolor. Ogni volta che lo vedo mi viene la nostalgia dei grandi cantanti che per esibirsi non avevano bisogno di mascherature e travestimenti più o meno grotteschi e ridicoli perché essendo bravi interpreti si limitavano a cantare: i Frank Sinatra, i Gilbert Becaud, i Tony Bennet, gli Charles Aznavour, i Domenico Modugno, che ti incantavano solo ad ascoltarli. Bisogna anche dire che quei grandi sapevano scegliere anche le cose che cantavano: “Resta cu’ mme”, “It had to be you”, “My way”, “La Bohème, “Et maintenant” che hanno da spartire con la boiata supponente di Achille Lauro, povero anche nella dizione della lingua italiana?

Diciottenne, Madame canta, anzi, snocciola, “Voce”. Un altro rap. Ha un guanto solo, chissà perché, e non indossa scarpe. Il brano è inutile oltre che incomprensibile ma lei è giovane, scalza e quindi andrà avanti perché la gioventù fa merito in sé, anche se si esegue un brano che con la musica ha un rapporto labile, per non dire inconsistente.

Gradevole il siparietto sul bacio di Matilda De Angelis che si conferma spigliata, disinvolta e brava. D’altra parte è un’attrice affermata a livello internazionale, mica Massimo Boldi.

I Maneskin, primo e unico gruppo in gara della serata, eseguono “Zitti e buoni”. Patetico pseudo metal-rock. Anche in questo caso si tratta di una filastrocca rap con sottofondo di chitarre distorte, ma di musica non c’è traccia. Il gruppo indossa i costumi d’ordinanza (batterista seminudo, vestiti trasandati degli altri) ed esegue i movimenti più o meno spastici che sono d’obbligo nel settore. La trasgressione presumo stia nel turpiloquio che fa capolino fra le parole altrimenti incomprensibili della filastrocca: tutto il resto è stereotipo. E a pensarci, è oramai stereotipo anche il turpiloquio.

Ghemon, secondo Amadeus, è un ex rapper passato alla melodia ma si muove come un rapper, cammina come un rapper e “Rose viola”, il brano che esegue, è l’ennesimo rap. Quando accenna a cantare mostra tutti i modestissimi limiti dei suoi mezzi vocali.

Restano tre brani in gara e poi questa dimenticabilissima serata musicale sarà finita.

Anche Fiorello è al di sotto dei suoi standard. Probabilmente gli pesa la mancanza di un pubblico in sala, la cui importanza è ben chiara a chiunque sia mai salito su un palcoscenico, figurarsi a un grande istrione come lui.

Finalmente, ma fuori concorso, una bella canzone: “Ti lascerò”, vecchio successo di Leali e Oxa, cantata da Fiorello e Matilda De Angelis che si rivela brava, anzi, straordinaria, anche come cantante. Finora la sola vera bella cosa di tutta la serata.

Una coppia canora e si torna alla gara: i Coma-Cose eseguono “Fiamme negli occhi”. Guarda caso un altro brano rappeggiante. Lei ha nei movimenti la grazia di un mestolo nella polenta, entrambi sono coperti dai soliti tatuaggi.

Che noia! Ma dov’è la canzone italiana? O meglio, dov’è la canzone tout-court?

Per la quinta volta a Sanremo, Annalisa stasera canta “Dieci”. Indossa un tubino nero dal quale non si capisce se c’è entrata e ne vuole uscire o viceversa, ed esibisce orgogliosa un tatuaggio che appare molto in basso fra i seni nella scollatura quasi ombelicale. Altro brano che spicca per la sostanziale assenza della più elementare idea di melodia: sfido chiunque, anche dopo dieci ascolti, a canticchiarlo, visto che da canticchiare non c’è assolutamente niente: ci sono parole scandite, ma non musica.

Francesco Renga è il penultimo cantante in gara della serata. Canta “Quando trovo te”, di cui è coautore. Durante i primi 40 secondi non si capisce niente né di musica né di parole: si percepisce solo un borbottio eseguito circa 20 decibel sotto il rutto. So che Renga è famoso ma ammetto di non averlo mai sentito cantare prima. Ammetto anche di pensare che tutto sommato non ho perso assolutamente niente.

E finalmente l’ultimo cantante, un trapper, e quindi so già che non mi piacerà. Si tratta di tale Fasma, con “Parlami”. L’ennesima filastrocca.

Lo lascio sbrodolare i suoi ansimanti e sgradevoli versi pensando con nostalgia ai Sanremo in cui, sfuggendo agli stereotipi, cantavano (cantavano!) Sergio Endrigo, Pino Donaggio, Johnny Dorelli, Mia Martini e tanti altri bravi interpreti di brani intensi, musicalmente ricchi e dai testi che emozionavano. Oggi, si direbbe, tutti cercano di star fuori dagli stereotipi e vanno a caccia dell’originalità a tutti i costi; ma l’originalità senza creatività, dice il saggio (il saggio sarei io) si chiama cialtroneria. E stasera di creatività non ce n’è nemmeno l’ombra.

Un momento di buona musica, una vera boccata di ossigeno, prima della classifica provvisoria, è offerto dalla banda musicale della Polizia di Stato, con un bel tango di Astor Piazzolla eseguito accompagnando due splendidi solisti, Olga Zakarova al violino e Stefano Di Battista al sax soprano. La qualità della musica che eseguono rende ancora più evidente il livello a dir poco infimo dei brani in gara.

La classifica provvisoria vede ultimo Aiello; poi Ghemon, Madame; decima Coma-cose, noni Colapesce e Di Martino; ottavo Gazzè, settimi i Maneskin, sesta Arisa, Quinto Renga, quarti Michielin e Fedez, terzo Fazma, seconda Noemi e prima Annalisa: sarà merito del tubino e della scollatura ombelicale.

È l’una e mezzo di notte e vado a letto sapendo che sognerò certamente di tutto ma non le canzoni di questa serata, che hanno un forte potere emetico, diuretico e lassativo ma di certo non fanno sognare.

E come se non bastasse, penso con angoscia che domani si esibirà Orietta Berti.

Giuseppe Riccardo Festa

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