Sanremo 2019: molto rumore per nulla?

Dimentichiamo per qualche giorno i guai del mondo e lasciamoci trascinare dalla placida corrente del festival di Sanremo.

Prima del collegamento con l’Ariston, una coppia male assortita introduce alcuni dei cantanti del festival, esibendosi in un siparietto infarcito di uno sgradevole entusiasmo, palesemente artificiale e recitato. Mentre scorre la pubblicità mi scervello cercando di ricordare chi ha vinto l’anno scorso e che cosa cantava, ma nonostante i miei sforzi proprio non mi riesce. Sarà l’età. Poi mi ricordo: erano quei due che dicevano “Non mi avete fatto niente”. Quanto sarà durata la vampata del loro successo? E degli altri chi si ricorda? Sic transit gloria sanremensis.

Ed ecco l’Ariston: un blu sottomarino e scenografie mobili. Per cominciare, sul palcoscenico c’è un balletto: si esibisce su un pezzo di Baglioni che non ci azzecca per niente (Voglio andar via: un subliminale messaggio all’incauto che segue il festival?) L’orchestra stavolta non è divisa e spezzettata. I direttori d’orchestra resteranno inutili, visto che tutti i professori hanno il loro bravo auricolare ed hanno il loro bravo click nelle orecchie; e infatti tra l’orchestra e il direttore c’è una distanza siderale.

Finito il balletto, i tre conduttori scendono le scale con certe facce che sembrano in lutto. Speriamo in Virginia Raffaele, bellissima in un elegante abito bianco e nero.

Le parole introduttive di Baglioni sarebbero anche toccanti, se non fosse che la regia ha mostrato per un istante il mega gobbo che legge, appeso alla balaustra della galleria.

Santo cielo, bisognerà sentire tutte le ventiquattro canzoni in gara. Mi sa che faremo tardi, considerato che fra una canzone e l’altra ci saranno ospiti, siparietti, balletti e soprattutto tanta, tanta pubblicità.

La gara comincia subito, aperta da Francesco Renga. Faccia simpatica, è perfino vestito normalmente. Canta “Aspetto che torni”, forse la risposta a “Voglio andar via” di prima.  C’è il solito problema con le parole che si sentono a fatica, perché è quasi una regola: i cantanti si sentono in dovere di cominciare i pezzi borbottando. Comunque il pezzo è strutturato con una melodia, strofe e tutto quello che serve per una canzone da Sanremo, standard anche nel testo: lui la ama, la aspetta, esiste solo lei eccetera.

Nino D’Angelo e un tizio che non conosco (sono tantissimi, stasera, i tizi che non conosco. Colpa mia, dato che mi ostino a non ascoltare la musica dei ggiòvani) tale Livio Cori, si esibiscono con “Un’altra luce”. Anche qui si comincia con borborigmi incomprensibili, ma in compenso si continua con vocalizzi non traducibili. D’Angelo canta in napoletano ma per quanto si capisce potrebbe anche essere serbo-croato. Già  neomelodico strappacore, è passato attraverso numerose fasi artistiche. La fase attuale è difficilmente definibile. Il pezzo comunque, per usare una formula tecnica molto in vigore tra gli addetti ai lavori,“non sa né di me né di te”.

Arriva poi Nek che, a dispetto del nome, non è un cane ma un cantante. Oddio, non è che la differenza, in certi casi, sia così evidente. “Mi farò trovare pronto” è il suo pezzo.  Comincia  cantando in ottava, quindi le parole si capiscono, ma purtroppo questo non depone a suo favore perché il testo è terribile. La musica cerca di essere rock, ma quando uno si fa chiamare Nek, e vuole fare il rock, non dovrebbe ripetere continuamente la frase “essere all’altezza dell’amore”, che è una frase cretina che più cretina non si può e comunque fa a cazzotti col rock.

Pubblicità. Suzuki, la famosa pubblicità col risucchio, è “l’auto ufficiale del festival”. Che vorrà dire? Sarà forse l’auto che porta i cantanti a quel paese quando il pubblico ce li manda? Boh!

I presentatori, per ora, sono bravissimi a leggere il gobbo, ma niente di più.

Un gruppo, a sentire Virginia Raffaele famosissimo, che si chiama The Zen Circus, canta “L’amore è una dittatura”. Il cantante sembra Cocciante da piccolo e canta come Cocciante da grande, il che non va inteso come un complimento. Il pezzo inizia che sembra una filastrocca però poi continua effettivamente come una filastrocca. Le parole sono difficili da afferrare, ma si direbbe che ci sia una sorta di opposizione fra il “noi” e il mondo”.  Due tamburini in uniforme nazista confermano l’idea che la canzone – oddio, canzone… – sia di protesta. Dalla platea arrivano anche due sbandieratori, pure loro in uniforme da nazisti. Boh.

I siparietti con pretese comiche fra i presentatori sono piuttosto ingessati e artificiosi.

Oh, no! Il Volo! Come se non bastasse Bocelli ospite, ci sono pure loro in gara!  Cantano  “Musica che resta”. Vediamo se il titolo dice vero. “Mostrami la parte del tuo cuore che / nascondi nel profondo”, e poi i soliti “giorni miei” e un insuperabile “baciami l’anima”. Chiunque sia il paroliere, fossi io gli infilerei la penna su per il naso. Ma fino in fondo, neh: per essere sicuri che ci resti. Ecco quella, sì; ma la musica, a dispetto del titolo, no: non resta.

Sesto pezzo in gara, un uomo di Neanderthal travestito da Loredana Bertè, o forse è Loredana Bertè travestita da uomo di Neanderthal? No, è proprio Loredana Bertè travestita da Loredana Bertè. Mio dio, ha la minigonna e i capelli blu: “la fatta dai capelli turchini”. La musica è di Curreri, e in effetti è decente; il pezzo s’intitola “Cosa ti aspetti da me” e mi viene da rispondere: “Che ti ritiri”. Oddio come stona! È terribile, da guardare e da sentire. A un certo punto dice “Ci vuole tutta una vita per essere un attimo”. Profonda frase zen, serenamente definibile come una solenne buddanata.

Ecco l’ospitata di Bocelli, che tutti – compreso lui – si ostinano a ritenere un tenore. Bocelli tenore: è un po’ come dire che so, che Matteo Renzi è modesto, Matteo Salvini è terrone e Coso Toninelli ci capisce di infrastrutture: assurdità, no?

Ma per il momento Bocelli non fa finta di essere tenore, e si può sentire. Duetta con Baglioni, che comincia quasi a starmi simpatico, almeno quando non canta. Purtroppo, adesso canta. Secondo pezzo di Bocelli, dopo la doverosa ovazione, col figlio Matteo (un altro Matteo: come se già non ce ne fossero abbastanza!), al quale passa il “chiodo” che indossava la prima volta che venne a Sanremo: un augurio per il figlio, una minaccia per noi o, come direbbe Tex Willer, un avvertimento. Insieme cantano “Follow me”, che pare che sia una hit internazionale. È un duetto bilingue con sfondo morale ed io, che sono insopportabilmente spocchioso, lo trovo stucchevole e pomposo, adatto solo a un pubblico americano dalla lacrimuccia facile che ama vedere il papà che canta insieme al figliolo e gli dà sagge indicazioni degne di un  sermone di telepredicatore: ecco perché tanto successo oltre Atlantico.

Comunque bisogna riconoscere a Bocelli il suo impegno filantropico. Quello che è giusto è giusto.

Mentre si snocciola la solita infornata pubblicitaria, constato che finora non ho sentito una sola canzone – Bocelli compreso – che abbia lasciato un pur labile segno nella mia memoria.

Torna la gara con Daniele Silvestri che si fa accompagnare da un rapper, il che già mi dispone negativamente. “Argentovivo” è il pezzo. Dedicato a un ragazzo in carcere. Rap con tanto di parolaccia, ripetuta più volte casomai qualcuno non l’avesse sentita; il rapper è doverosamente vestito da rapper, con tanto di berretto e cappuccio, si muove come tutti i rapper e quando tira il fiato emette un singulto da strangolato. Vabbè, Silvestri: hai fatto il tuo numero sociale, con tanto impegno ma nessuna melodia e nessuna musica. Insomma, nessuna canzone.

Simpatico monologo di Bisio, che ridendo e scherzando e fingendo di sfottere Baglioni sfotte in realtà la xenofobia oggi imperante. Bravo! Però c’è sempre una fastidiosa mancanza di spontaneità. Poi arriva Baglioni che, forse l’ho già detto, a dispetto della rigidità, dell’impaccio e della sensazione che dà di essere là mentre voleva essere altrove (ripenso al balletto iniziale su “Voglio andar via”) comincia a starmi simpatico; peccato che si ostini a cantare, con quella frittella in gola che fa tanto brutto.

Torna la gara con un altro rapper e una cantante, tali Federica Carta e Shade. “Senza farlo apposta” è il pezzo e “per ballare sopra il mio cuore” è la prima frase che percepisco, e tanto basta. Per non parlare della camicia hawaiana che indossa il rapper, che fa pendant con certe scarpe blu e rosse, il tutto indossato su una grisaglia: roba da buttarlo giù dal palco. Lei canta frasi insulse su una melodia insignificante, con la voce d’ordinanza tipica del 90 per cento delle cantantine delle ultime generazioni.

Un altro ragazzino, nome d’arte Ultimo, canta “I tuoi particolari”. L’anno scorso ha vinto fra i giovani. Inizia preludiando al pianoforte, ma dubito che sia lui a suonare. Ha una dizione esecrabile, la musica è indecorosa  ma in compenso il testo è la solita storia di lui che sente la mancanza di lei che se n’è andata. Orribili gli enjambement dei versi: uno finisce con la congiunzione “e”, molti con “che”. S’è alzato dal pianoforte e si muove sul palco come un rapper anche se canta una sanremesissima canzone d’amore.

Ospitata di Pierfrancesco Favino. La classe non è acqua, e con Virginia Raffaele esegue un gradevole mix di Queen, Sister Act e Mary Poppins. Il festival, finora, l’ha salvato questo siparietto, perché delle canzoni in gara non se ne salva una che è una. Resta comunque la sgradevole sensazione di totale mancanza di spontaneità e naturalezza.

Pubblicità. Alla Conad hanno cambiato commesso: questo, non pago di dire frasi storiche dalla porta del supermercato, va a rompere gli zebedei pure a casa dei clienti. Ha la barba come quello di prima e dice le stesse cose che pare che voglia salvare il mondo; invece vende caffè e latticini, però a prezzi bassi e fissi.

Torna la gara con Paola Turci, elegantissima in un tailleur pantalone bianco. Canta “L’ultimo ostacolo”. Bella voce appena roca, canzone d’amore musicalmente ben strutturata, testo meno banale del solito. Finalmente qualcosa che merita di essere ascoltato.

Arriva Motta, undicesimo in gara. A sentire che si fa chiamare così, mi viene in mente “Vola colomba”: una colomba Motta, ovviamente. Canta “Dov’è l’Italia?”. Ha la tipica aria imbronciata da cantautore molto impegnato ma incompreso. Brutta voce, andamento ansimante anche nella musica. Il testo è difficile da decifrare. Lì per lì sembrava volesse parlare di migranti, ma non è chiaro cosa voglia dire, a parte un continuo ripetere “amore, amore”.

I Boomdabash sono tre. Cantano “Per un milione”, una filastrocca semirap. Il cantante principale, come è d’uso fra i rapper, ha subìto un trapianto di tappeto persiano al dorso delle mani. Il pezzo è in stile tormentone estivo, peccato però che sia febbraio, faccia un freddo della madonna e sia dunque fuori stagione. Sicuramente, anche se è stupido e insulso, data l’orecchiabilità è il pezzo che avrà più successo, almeno fra i ggiòvani.

I siparietti in tre dei conduttori restano miserelli, anche quando fanno finta autoironia paragonandosi alla famiglia Addams. Virginia Raffaele fa un incredibile scivolone salutando i Casamonica, ai quali Bisio si era paragonato per via della giacca invereconda che indossava prima di mettersene un’altra, altrettanto brutta ma almeno in tinta unita.

Il rap imperversa. Patty Pravo, che già da sola basterebbe per spegnere il televisore, si accompagna a tale Briga, il rapper, appunto, di turno. Eseguono “Un po’ come la vita”. Un problema tecnico porta un momento di delizioso silenzio sul palco ma poi, purtroppo, il problema viene risolto. Patty Pravo è, che io sappia, l’unica mummia egiziana mummificata con massicce iniezioni di fondotinta anziché di natron. In scena, inutili e inutilmente eleganti, un’arpista e un violoncellista. Il rapper, bontà sua, all’inizio non rappa ma canta. Cioè… Beh, sì, canta, nel senso che lo fa come la Patty e come quasi tutti gli altri: snocciolando una melodia senza capo né coda. E poi, figurarsi se non rappava: la sua brava filastrocca, a un certo punto, ce l’ha infilata. Vabbè, pezzo archiviabile senza rimpianti.

Simone Cristicchi segna il punto di mezzo della kermesse. Esegue “Abbi cura di me”. Cristicchi sta facendo cose egregie in teatro, e infatti esordisce in stile monologo accompagnato dal pianoforte. Testo molto intenso, decisamente poetico. La musica è solo una scusa per accompagnare il testo recitato, di cantato c’è molto poco. Sicuramente questo è il pezzo più alto che si è sentito finora.

Il pensiero commosso che, dopo la sua esibizione, Baglioni dedica a Fabrizio Frizzi, suscitando una standing ovation, non poteva capitare in un momento migliore. Baglioni, non so se l’ho già detto, comincia qusi a starmi simpatico. Quest’anno è più disinvolto e a suo agio, quindi potete immaginare come fosse ingessato l’anno scorso. E poi, adesso non canta, anche se di sicuro lo farà ancora. Vabbè, nessuno è perfetto.

Ospitata di Giorgia, che come è noto ha una splendida voce e una tecnica strabiliante ma canta canzoni di solito terribilmente stupide. La fantasia che esegue per cominciare non è male, anche se trovo insopportabili, per quanto impeccabili, i vocalizzi in stile Whitney Houston ai quali si abbandona con evidente goduria e autocompiacimento. Continua a vocalizzare, e in modo decisamente irritante, quando canta accompagnata da Baglioni al piano, che il piano lo suona davvero bene. Baglioni non è antipatico, soprattutto quando non canta. Sì, lo so che l’ho già detto, ma repetita iuvant. Il problema, purtroppo, è si mette anche a cantare.

Quindicesimo (mamma mia, ancora quanti!) Tale Achille Lauro (niente da spartire con l’omonimo storico armatore, almeno credo), che si è fatto una trasfusione di graffiti, finiti tutti sulla faccia. Mamma mia, che impressione. Esegue “Rolls Royce”. Pezzo da rave party, tutto ritmo e poco d’altro, che col festival di Sanremo non ci azzecca per niente; ma bisogna richiamare il pubblico gggiòvane. Ai gggiòvani piacerà senz’altro ma a me, scusate il francesismo, me pare ‘na strunzata.

Arriva finalmente un momento di piacere e gradevolezza con Arisa, che sa cantare ed ha anche una gran bella voce. Esegue “Mi sento bene”. Il pezzo è vivace, mosso, piacevole e vario. Nella mia classifica personale Arisa è quindi seconda dopo Cristicchi, musicalmente addirittura prima, terza Paola Turci.

Baglioni chiacchiera con Virginia Raffaele e guardandolo, chissà perché, penso ai monoliti dell’Isola di Pasqua e alla loro nota espressività. Sarà  l’importanza della mandibola? L’altezza della fronte? L’elasticità della pelle, paragonabile al basalto e al granito? Chi lo sa.

Cantano ora i Negrita, che eseguono “I ragazzi stanno bene”. Ci si sono messi in sei, per comporla. Solito attacco sul registro basso, tanto basso da rasentare il rutto; poi una melodia tipicamente sanremese,  a dispetto della chitarra distorta, e ritorno al borborigmo. Il testo fa finta di essere di ribellione ma è una ribellione con troppi archi a farle da sottofondo, sa di prefabbricato e di fasullo. Da un gruppo rock mi aspettavo di meglio.

I testi dei presentatori e degli ospiti – ora tocca a Claudio Santamaria – e le trovatine che li accompagnano sono patetici, per non dire terribilmente stupidi, tipo il giocare sul fatto che i tre maschi si chiamano tutti Claudio. I quattro dedicano una fantasia musicale al Quartetto Cetra, ma dopo il giochino della Raffaele con Favino sa di déjà vu. Ancora non si è visto nulla del grande talento di Virginia Raffaele, che poveretta è sacrificata alla stupidità dei siparietti che deve interpretare.

Torna la gara, con un certo Ghemon che si è fatto prestare dall’abominevole uomo delle nevi un enorme cappotto bianco e degli spropositati pantaloni, pure bianchi, nei quali si aggira con l’aria di non riuscire a trovare l’uscita. Rilevo che, a parte il ragazzotto che accompagnava Silvestri, è l’unico rapper vestito da rapper: tutti gli altri, rispetto al passato, sono molto più sobri. Anche i rapper non sono più quelli di una volta. Ghemon (ma che minchia significa ‘sto nome? in Veneto lo pronunciano Gh’è un mona?) esegue “Rose viola”, con una voce sgradevole che dice cose insulse su note sconnesse rette da un inutile accompagnamento rappeggiante.

Ci avviciniamo alla fine: diciannovesimo arriva un giovane di nome Einar, che canta “Parole nuove”. Nuove un cavolo. La canzone sembra uscita dallo stampino: testo e musica di Ovvio Banale, chiunque ne sia il vero autore: attacco e strofa semirecitati, poi ritornello urlaticchio. Pezzo che entrerà di diritto nella grande e affollata sala del Dimenticatoio, dove lo attende il 99% delle canzoni che sono state eseguite sul palco di Sanremo.

Dopo una passerella di VIP nel parterre, per allungare un brodo che già è terribilmente languido, si esibisce poi un altro gruppo, gli Ex-otago (ma dove li trovano questi nomi d’arte?), che eseguono “Solo una canzone”. Il solista si muove un po’ come un ubriaco, canta con la bocca semichiusa e quindi pronuncia male le A, è stonato mica male, e ce l’ha con le cosce e le labbra della solita lei dedicataria della canzone; canzone che, guarda un po’, parla d’amore.

Mancava Anna Tatangelo, si sperava che continuasse a mancare, e invece è arrivata. Beh, almeno non fa più coppia con Gigi D’Alessio e questo segna un punto a suo favore. Esegue “Le nostre anime di notte”. Solito esordio borbottato: deve essere una sorta di rito. Inutile descrivere il pezzo, la cui ricetta rientra precisa precisa nel cliché: tre parti di melassa e una di zucchero. Guardandola e ascoltandola bisogna dire – sì, datemi pure del porco maschilista – che la parte migliore della Tatangelo decisamente non è la voce.

Un giovanissimo, tale Irama, esegue “La ragazza col cuore di latta”. È un altro che il nome d’arte è andato a cercarselo al canile municipale. Inutile rap con le solite rime facili all’inizio, poi ritornello faticoso e stentato, inutilmente supportato da quattro o cinque coristi. Se ho capito bene parla di una ragazza maltrattata in famiglia che però lui ama e vuole salvare. Il povero Irama ci crede, ce la mette tutta, ma la canzone resta velleitaria e inutile.

Penultimo si esibisce Enrico Nigiotti che esegue “Nonno Hollywood”. Ennesimo borbottatore. Il pezzo, piuttosto lugubre, è dedicato al nonno morto. Beh, almeno esce dal solco del solito amore più o meno contrastato. Testo molto personale, musica niente di che. Comunque è quarta nella mia classifica personale.

E infine, “both last and least” Mahmood, con “Soldi”. La voce è esecrabile, il pezzo rap o giù di lì con la struttura arabeggiante e molto sgradevole all’ascolto. Il testo sembra alludere al disagio di uno che non ha soldi.

Possiamo dire che la sfilata delle canzoni in gara si è chiusa in bruttezza.

Aspetto di vedere com’è la classifica parziale, ansioso di ristorare le stanche membra e le esauste orecchie fra le coperte e sul guanciale del mio caldo letto dove mia moglie, più saggia di me, mi ha preceduto da un pezzo. Ovviamente la classifica demoscopica è lontana dalla mia, ma conta solo per il trenta per cento. Sono sicuro che, con le altre giurie, andrà molto peggio. Buonanotte, Sanremo. Questa prima serata è stata buona solo a conciliare il sonno.

Come andrà con le prossime? Non come con le giurie, spero.

Giuseppe Riccardo Festa

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