MICHELE NOVARO: CHI ERA COSTUI?

A parte i versi, gonfi di retorica guerrafondaia (almeno nella prima strofa), c’è chi dice che musicalmente è decisamente brutto, e forse non ha tutti i torti: quella struttura a marcetta, con la ripresa dal ritmo che fa “umpa-umpa-umpa”, non è il massimo che la musicologia italiana abbia prodotto nel Diciannovesimo secolo; e poi (quando si tratta di prenderci in giro da soli, noi italiani siamo imbattibili), la musica si adatta perfettamente ad altri versi, quelli di Sapore di Sale, di ginopaoliana memoria, e viceversa (nel senso che potete cantare i versi di Mameli sulla musica di Gino Paoli): insomma, anche con l’inno nazionale, noi non riusciamo a prenderci sul serio.

Tutt’altra cosa, per dire, l’inno tedesco, che in realtà è dell’austriaco Haydn, o il britannico God save the Queen (o King, secondo i casi), per non parlare della pure guerrafondaia Marseillaise, orgoglioso prodotto della Rivoluzione Francese, del maestoso inno nazionale russo e del marziale The Star sprangled Banner statunitense: tutte composizioni con ben più elevate pretese musicali che il nostro tenero Inno di Mameli.

Inno di Mameli che poi, in realtà, è di Michele Novaro, perché la musica di quella marcetta appunto Michele Novaro l’ha composta, sui versi infiammati di patriottismo del poeta che andò a farsi ammazzare nella difesa della mazMichele_novaroziniana Repubblica Romana. Il povero Novaro, che a parte questo inno ha prodotto ben poco, nel suo piccolo ha un po’ subito la sorte di Kurt Weil, che ha musicato L’Opera da Tre Soldi, di cui tutti ricordano solo che è di Bertolt Brecht.

Però, sarà una questione di imprinting, io al nostro Inno nazionale non riesco a non volergli bene.

Chi, come me, ha servito la patria in armi o, per dirla più banalmente, ha fatto il militare, sa di cosa parlo. Quel momento, quando nemmeno ventenne eri scherato sul presentat-arm nel tuo battaglione e il colonnello, dopo aver letto la formula del giuramento di fedeltà alla Patria, ha gridato: “Lo giurate voi?” e tu, in risposta, alzando il braccio destro, all’unisono con gli altri hai gridato “Lo giuro!”; e subito dopo la banda ha intonato l’Inno, quell‘Inno, il nostro Inno: come si fa a dimenticarlo, quel momento, con le lacrime che ti riempiono gli occhi e tu ti senti parte di qualcosa di bello, di grande, di utile e importante, anche se poi maledirai la naja, i caporali, la pasta al sugo, le ramazze, il tempo perso e tutto il resto? In quel momento l’Inno di Mameli ti riempie e ti scalda il cuore, e diventa la musica più bella di tutte.

Ancora mi succede, ogni volta che sento quelle note. E chissenefrega della modestia melodica, del ritmo scontato e di tutte le critiche di questo mondo.

Mi è successo anche ieri, quando ho visto due nostre campionesse di tiro al piattello – così normali, così madri di famiglia, così meravigliose –  cantarlo felici, il nostro Inno, dopo aver conquistato oro e argento a queste olimpiadi così avare, per noi, di successi negli sport ricchi di glamour (e ritorni economici) e generose, invece, in quelli meno famosi e meno ricchi, gli sport della gente che i suoi risultati se li suda con sacrifici e dedizione ma nessuno sa chi è finché non regala al Paese il frutto di quei sacrifici e quella dedizione: gli sport che, in fondo, rappresentano la gente normale, quella che lavora zitta zitta e fa andare avanti il Paese.

E in fondo pure le parole di Mameli sono belle, anche se io preferisco alla prima la seconda strofa, quella che nessuno conosce ma che tutti dovremmo invece imparare a memoria per diventare veramente, fraternamente e finalmente italiani:

Noi fummo da secoli
Calpesti, derisi,
Perchè non siam popolo,
Perchè siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme;
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.

Giuseppe Riccardo Festa

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