IL MONSIGNORE E IL CARDINALE

A mio avviso Monsignor Charamsa avrebbe fatto meglio a stare zitto. O quantomeno, per dichiarare urbi et orbi la propria omosessualità, avrebbe dovuto scegliere tempi e modi meno sospetti.

Perché farlo proprio ora? È legittimo il sospetto che la convivenza col suo compagno faticasse a restare segreta e che allora il teologo abbia pensato, pubblica per pubblica, di trarne il miglior possibile vantaggio: solo così si spiegano l’’intervista al Corriere della Sera e la conferenza stampa proprio alla vigilia del sinodo in Vaticano sulla famiglia e, soprattutto, l’’annuncio dell’uscita del libro -– scritto in italiano, ha precisato, e tradotto anche in polacco -– in cui Charamsa racconta la sua storia di prete non solo omosessuale ma anche fidanzato.

Questo coming out, insomma, più che a un coraggioso atto di onestà e trasparenza fa pensare a un’’astuta iniziativa pubblicitaria.

Sul lato opposto altrettanto criticabili –- per quanto scontate e prevedibili –- ritengo le dichiarazioni del cardinale Ruini in merito alla legge sulle unioni civili che il Parlamento sta faticosamente discutendo. Cercherò di spiegarmi, scusandomi con i miei 24 lettori se sarò un tantino più prolisso del solito.

Ritengo le affermazioni di Ruini criticabili sul piano politico, innanzitutto, perché il cardinale pretende di imporre a una comunità -– la Repubblica Italiana – ricca di sensibilità e interessi molteplici, un pensiero unico – il suo – perpetuando così l’’idea, cara a tutti gli integralisti, che la religione debba informare le leggi dello Stato: è la linea di pensiero degli ultraortodossi che, in Israele, pretendono di imporre uno Shabbat rigoroso e assoluto a tutti, anche agli israeliani che non sono né ultra né ortodossi, ai quali dal tramonto di venerdì a quello di sabato viene così proibito perfino di accendere e spegnere la luce; per non parlare di certi regimi musulmani che impongono ai loro sventurati sudditi la più rigorosa e sanguinaria applicazione della Sharia.

Le prese di posizione del cardinale meritano a mio avviso una riflessione anche sul piano logico e morale. È proprio la dottrina della Chiesa, infatti, a insegnare che alla base di ogni valutazione dei comportamenti umani c’’è il dono divino del libero arbitrio, uno dei fondamenti della teologia cattolica. Il libero arbitrio fa sì che il merito o la colpa di ciascuno risiedano nella libertà di decidere se tenere o no un qualsiasi comportamento. Ce lo insegnavano al catechismo: si pecca con pensieri, parole, opere e omissioni.

Ma se la possibilità di pensare, parlare, agire o non agire viene inibita, allora non c’è scelta; e dunque non c’è merito né colpa. Ad esempio Origene, il teologo del terzo Secolo, si evirò per non subire le tentazioni della carne; ma la sua castità, dopo, non fu più un merito. E infatti Origene, pur essendo stato un pensatore importantissimo nello sviluppo della teologia cristiana, è escluso dal novero dei dottori della Chiesa.

La Chiesa cattolica è padronissima di alzare l’’indice ammonitore verso i suoi seguaci e di dire loro che il divorzio, il matrimonio civile, lo scambio di partner, la Legge 194, la convivenza more uxorio etero e omosessuale, i rapporti sessuali omosessuali, le fecondazioni assistite e via elencando – tutte questioni che riguardano esclusivamente la vita e la coscienza individuali – sono peccati mortali; ma per spingere il suo gregge nel paradiso e non tra gli ignavi dell’’antinferno dovrebbe fermarsi lì, senza imporre loro con metodi coercitivi conformi comportamenti, né pretendere che le leggi dello Stato si adeguino alla sua dottrina, legando per giunta non solo chi pratica il suo credo ma anche chi ne segue altri, o nessuno, col suo morso, le sue briglie, i suoi speroni e i suoi paraocchi.

Il compito dello Stato è di regolamentare la convivenza dei cittadini secondo i criteri del minimo danno sociale e della massima giustizia individuale: ecco perché è suo dovere punire la violenza, impedire le prevaricazioni, proteggere la proprietà, tutelare i minori, regolamentare gli scambi commerciali e il lavoro, garantire l’’equità e la parità di diritti: tutto ciò ha un impatto diretto e misurabile sui rapporti e sulla vita delle persone. Ciò che non nuoce agli altri non può essere impedito e ciò che discrimina va rimosso.

Lo Stato deve garantire insomma la massima possibile libertà attraverso la minima possibile ingerenza nella vita della gente.

Le religioni si muovono su un altro terreno, che è quello della morale. Ma la morale, e scusate se mi ripeto, si può proporre, non imporre.

Queste cose lasciamole fare ai talebani; noi, per fortuna, della santa Inquisizione ci siamo ormai liberati da un pezzo.

Giuseppe Riccardo Festa

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