Sanremo: largo ai gggiòvani.

Ultima serata del festival di Sanremo. Ho saltato la quarta per saturazione e qualche mio lettore si è preoccupato: tranquilli, anche se ho seguito le prime tre serate sono ancora vivo e vegeto. Un po’ stravolto, questo sì, ma poteva andarmi peggio: avrei potuto, per esempio, essere uno degli artisti in gara, il che avrebbe marchiato per sempre la mia credibilità come musicista.

La serata promette di essere lunga e faticosa. Però esordisce con la Banda della Marina Militare che esegue l’Inno di Mameli, che poi è di Michele Novaro. Tanti ricordi, ogni volta che sento queste note, riaffiorano alla mia memoria: come quel lontano giorno del 1967 in cui inquadrato nel VI corso allievi sottufficiali gridai “Lo giuro!” e poi la banda attaccò l’Inno, e la commozione, e mio padre in tribuna…

Belle le uniformi ottocentesche della Banda. Sanno di onore, di gloria, di patriottismo. Peccato che la nostra Marina, dopo il 1918, non abbia mai vinto una battaglia che è una.

Venendo al festival, stasera decide il televoto. La parola “televoto” mi fa pensare a un concorso di miss maglietta bagnata (te le voto). Vediamo se il riascolto mi fa cambiare idea sulle canzoni e sugli interpreti. Di sicuro non cambierò idea sugli spot pubblicitari, che sono in realtà il vero nocciolo duro e la vera ragion d’essere del festival.

Si comincia con Ghemon, che non rinuncia a esibire la canotta sotto il vestito indossato sopra un’inutile camicia. Esegue “Momento perfetto”. Già, il solito rap. Stasera gliele voto: le canzoni, non le tette (anche perché Ghemon, sotto la canotta, di tette non ne ha). Alterna rap e inserti vagamente jazz (per la serie “te la do io la musica italiana”). 6 al jazz, 1 al rap, media 3,5. Stasera voglio essere buono.

Poi viene Gaia, con una mini in bianco e nero e un make-up da call-girl. Canta (vabbè, si fa per dire) “Cuore amaro”. Di nuovo una giaculatoria rap di cui si fa fatica a recepire il senso, e infatti il senso io non lo recepisco. Lei si muove sul palco agitando le braccia come se volesse separarsene credendo di ballare. Voto 0 alla canzone, 8 alle gambe (ci tiene a esibirle, suppongo che le faccia piacere che siano votate), media 4.

Sempre in quarantena, con la registrazione della prova generale della sua “La genesi del tuo colore” Irama conferma lo stato di grave costipazione intestinale che condiziona la sua performance. Il mio voto, associato a un invito ad assumere qualche goccia di Guttalax, non può superare il 3.

In attesa che Irama smetta di spingere inutilmente sul suo basso ventre, rilevo l’insopportabile frequenza dei cambi di inquadratura cui con sadico piacere si dedica la regia, in un rutilante va e vieni di immagini che mette a dura prova i nervi ottici (e non solo quelli) dello spettatore, già affaticati dalla scenografia e dalle luci eccessivamente colorate ed eccessivamente mobili, anche quelle.

Ed ecco Gio Evan, anche lui in bianco e nero. Esegue “Arnica”, con l’avvio incomprensibile borbottato nel microfono durante una lunga introduzione; poi un declamato semi-rap. Segue una sezione in cui fa letteralmente coccodè e di nuovo il declamato. Musica? Nemmeno tracce. In compenso del testo non si capisce una parola che è una. Voto: 2

Pubblicità. Vorrei conoscere la tipa che alla fine del relativo spot sussurra, anzi zuzzurra, “Suzuki”. Magari scoprirei che è una cozza bisbetica e pelosa, però quel “Suzuki” col risucchio è tanto sexy.

Fiorello esordisce col balletto, stasera vestito e quasi tutto al maschile. Poi canta un medley di successi di Little Tony. Certo, Little Tony non era Frank Sinatra, ma paragonato ai “campioni” del momento giganteggia e fa venire una grande nostalgia di quando al festival si cantava; e pensare che già allora ci lamentavamo della qualità delle canzoni!

Quinto cantante in gara è Ermal Meta, candidato alla vittoria. Canta “Un milione di cose da dirti”. Non sono un suo fan (sicuramente è una brava persona, però ha una faccia vagamente patibolare e poi abitualmente io ascolto Bach) ma oggettivamente fra quelli che ho sentito finora è il primo di cui si capisca quello che dice e che canta. Ok, è la solita canzone d’amore e il testo è degno di essere scomposto nei foglietti dei Baci Perugina; però è una canzone, con tanto di melodia e di armonie. Voto: 7

Oddio, adesso c’è Fulminacci con la sua “Santa Marinella” barbarossiana (ripeto: nel senso di Luca, non dell’imperatore teutonico). Mi sembra di intuire che parli di droga. Anche lui canta, in fondo. Al secondo ascolto gli elargisco la mia comprensione e anche un pizzico di umana simpatia. voto: 5

Esibizione di Ibrahimovich, la cui utilità mi sfugge. Insiste con l’arroganza, che forse non è finta, ma è decisamente ripetitiva e stucchevole.

Settimo cantante Francesco Renga, che trovo irritante anche per via dell’aria da “sono qui perché con la mia presenza vi voglio fare un regalo” che ostenta mentre raggiunge il microfono e canta “Quando trovo te”. Anche nel suo caso, almeno per il primo minuto di esibizione dire che “canta” è eccessivo; borbotta, bofonchia, gorgoglia ma non canta. E poi canta, sì, più o meno, ma ha grossi problemi sulle note più alte che più che cantarle le urla. E comunque il pezzo è brutto. Voto: 5, merito della parte musicale del pezzo, che se no meriterebbe un 3.

Pubblicità. Pavarotti canta il valzerotto “Buongiorno a questo giorno che / si sveglia oggi con twe” e io mi commuovo pensando a quella volta che gli ho sentito interpretare il Duca di Mantova allo Sferisterio di Macerata e dovette bissare “La donna è mobile” se no non lo lasciavamo andare. Adesso lo usano per la Nutella. O tempora, o mores.

Ottavi in gara gli “Extraliscio” che interpretano l’ossimoro “Bianca luce nera”. Gradevole brano da ballare facendo il trenino a fine anno o anche buon tormentone estivo. Insomma, canzoncina simpatica per fare quattro salti, come confermano due coppie romagnoleggianti che accompagnano l’esibizione, ma a livelli stratosferici se penso ai rapper. Voto: 5

Passa Serena Rossi, ovviamente felice di essere qui. Purtroppo accenna un pezzo zuccheroso e stucchevole di Jovanotti e la simpatia che provo nei suoi confronti si scioglie come neve al sole. E presenta con Amadeus i noni cantanti in gara, Colapesce e Di Martino, che eseguono la loro “musica leggerissima”. Non fanno nemmeno finta di armonizzare, cantano la loro canzoncina (come definirla altrimenti? Il titolo stesso lo ammette) all’unisono. Eppure un intervallo di terza lo saprebbe cantare perfino Renga. Loro, evidentemente, no. Inevitabile, al centro del pezzo, un declamato rappeggiante. Voglio essere buono, e invece di 2 al pezzo e all’interpretazione assegno un 2,5 per via della graziosa pattinatrice che entra sul finire.

Lo spot del concorso Tim Unica è orrendo, pieno di gente idiota che balla e ride, felice come se l’Italia avesse prestato soldi alla Svizzera su una canzone promozionale ripugnante.

Decima in gara è Malika Ayane, stasera elegantissima in un abito pantalone blu rutilante di riflessi che copre anche i suoi tatuaggi. Esegue “Ti piaci così”. Ha cantato di meglio. Ma perché cominciano sempre con queste basse frequenze degne dei capodogli in amore?  Voto 5.

La scenografia è sempre più sgradevole, con luci che ricordano l’interno di quelle palle dell’albero di Natale che hanno un cuneo rientrante multicolore. La regia continua a cambiare inquadratura con una frequenza che non concede più di tre secondi a ogni telecamera, ma di solito si limita a un secondo e mezzo. Niente di meglio per indurre nello spettatore stati di catalessi o istinti omicidi.

La parodia di Fiorello dell’opera e del balletto è simpatica e divertente. Nello spot Tim dell’infornata successiva di pubblicità, un tizio masturba un monitor che letteralmente eiacula Amadeus, nella nuova e inedita veste di spermatozoo. Però con tanti giga.

Ecco undicesimi Michielin e Fedez. Fedez che avendo esaurito gli spazi da tatuarsi addosso si tatua i vestiti (l’altro ieri i pantaloni, stasera la giacca). Eseguono “Chiamami per nome”. Il pezzo è firmato (fra gli altri) da Mahmud, il che esclude che contenga musicalità, melodiosità e cantabilità e soprattutto gradevolezza. Voto: 1, ma sicuramente piacerà ai ggiòvani.

Ospitata di Ornella Vanoni, che contende a Donatella Versace il titolo di signora della chirurgia plastica. È simpatica, ma i limiti dovuti all’età si fanno sentire. La chirurgia plastica, purtroppo, non restituisce il fiato perso e l’elasticità delle corde vocali. La voce è incerta e calante con momenti di raucedine, la fatica si sente. Ma le voglio bene lo stesso, in ricordo di come era. Ricupera con “Mi sono innamorato di te” di Tenco, che va interpretata più che cantata. Prima di esibirsi con Francesco Gabbani in un pezzo di cui non ricordo il titolo, ma composto dallo stesso Gabbani, cede il campo alla pubblicità e risento l’irresistibile risucchio della voce sexy che dize  “Zuzuki”. Pardon: che dice Suzuki.

Gabbani dimostra che perfino al giorno d’oggi si possono scrivere canzoni che sono effettivamente canzoni, con originalità e creatività e con una melodia gradevole e veramente musicale. Il pezzo non chiede alla Vanoni grandi escursioni lungo il pentagramma, lasciando spazio alle sue capacità interpretative: ulteriore segno di intelligenza e abilità compositive.

Dodicesimo in gara Willie Peyote con “Mai dire mai – La locura”. E si torna ai soliti rap.

Il che è inevitabile: il mercato discografico è in mano ai ragazzini, e i ragazzini consumano (consumano, mica ascoltano) questa roba. I discografici sono i veri padroni del festival, ed ecco spiegato il livello infimo della media dei pezzi in concorso. Peyote non fa nemmeno finta di cantare: snocciola un discorso scioglilingua incomprensibile. Piacerà senz’altro ai ragazzini, su di me ha un potente effetto lassativo. Resisto agli stimoli intestinali e gli do il voto: 1.

Intanto penso che ucciderei volentieri il tecnico delle luci, che spara sul palco dell’Ariston raggi e lame di luce multicolori degni della più squallida delle balere riminesi.

Mi distraggo mentre Ibrahimovich ripete il suo siparietto. Fa un discorso prevedibile e scontato, sempre giocando sull’arroganza, invitando il pubblico all’impegno, al sacrificio e alla dedizione, perché “nel tuo piccolo anche tu sei Slatan”. Per carità, è una cosa positiva ma a me di essere Slatan non me ne potrebbe fregare di meno: preferisco il Canto XXVI dell’Inferno di Dante: vi ricordate, vero? “Considerate la vostra semenza…”

Altra presenza femminile, una ragazza in un orribile abito lungo che si chiama Tecla, come mia suocera, di cui non percepisco il cognome e che presenta un film Rai in cui interpreta Nada, quella di “Ma che freddo fa” (quando al festival ci si arrivava perché si sapeva cantare).

Amadeus le fa introdurre Orietta Berti, che caracolla al centro del palco in un vestito impossibile che sembra una via di mezzo fra il tendaggio di un salotto stile impero e un divano rococò messo per traverso. Interpreta “Quando ti sei innamorato”, inutile come tutto il suo repertorio. Voto 2, il doppio di 1 giusto perché non è un rap. Ho letto che ha preso una bella gaffe dicendo che canterebbe volentieri con i Naziskin, ma voleva dire i Maneskin. Almeno spero che lo volesse dire.

Pubblicità. Chissà perché le modelle che presentano i profumi sono sempre imbronciate e ammusonite? Sarà la fame, forse: sono tutte tanto secche che con una goccia di profumo ci possono fare la doccia.

Arriva Arisa, in lungo e make-up sexy per cantare “Potevi fare di più”. Con un titolo del genere, uno pensa poveretto il fidanzato, che lei sputtana così davanti a tutti. Ma poi ci si ricorda che l’autore del brano è Gigi D’Alessio e allora capisce che ce l’ha con lui, perché il pezzo proprio è miserello. Incipit con volume della voce a livelli da confessionale, che ti viene da chiederle “quante volte, figliola?”. Ma per meritare una penitenza severa basta una sola volta, se si canta una cosa di Gigi D’Alessio. Voto 3, uno in più della Berti perché almeno il vestito è bello.

Partecipazione di Giovanna Botteri che legge il testo “L’anno che verrà” di Dalla. Non è brava a recitare, però apprezzo l’intenzione. E poi Giovanna Botteri è una delle più grandi donne del giornalismo italiano, e non solo italiano, e il suo invito alla positività è sincero ed entusiasta.

Aiuta Amadeus a presentare Bugo (poverina, meritava di meglio) che con un soprabito a quadrettoni bianchi e neri interpreta “Invece sì”. Voce fessa, di una sgradevolezza rara, in compenso molto orientata alla stecca e calante in maniera imbarazzante. Ma sono buono e il mio voto, grazie al buon arrangiamento che merita un 5, è 5 (chi ha orecchie per intendere intenda).

Ecco i Maneskin con il loro “Zitti e buoni”. Atteggiamenti, movimenti, gesti e tutto il resto che sa di déjà-vu, di rockettismo di maniera, stucchevole e originale come un piatto di pasta scotta e senza condimento. Però il testo, dice la critica, è provocatorio (infatti contiene un adeguato numero di parolacce) e dunque, dice la critica, merita plauso e riconoscimenti. Per me merita di finire nel cassonetto dei rifiuti biodegradabili. Voto 2.

Come se non bastassero i Maneskin, ecco Achille Lauro e la sua supponente esibizione che comincia scomodando Beethoven. Ha una dizione invereconda: “Questa storia mai finida” è una delle poche frasi che riesco a recepire. Si autocelebra giocando tutto imbronciato a fare il martire e inserendo nell’esibizione le voci di chi non lo apprezza, quasi che apprezzarlo fosse un dovere morale. Ma è possibile che non si sappia più distinguere fra artisti ed istrioni, assegnando ai secondi i meriti dei primi?

Ora tocca a Madame, anche lei esaltata (dio sa perché) dalla critica. Esegue “Voce”, che lei stessa ha affermato essere un autoelogio. Stasera si presenta in bianco e velata. Come di prammatica non si capisce una mazza di quello che dice, parole che snocciola rappando a singhiozzo ma a velocità ultrasonica ottenendo un singolare effetto stop-and-go. Per giunta, si muove anche in modo sgraziato sul palco. La critica può dire quello che le pare, per me è brava come Jovanotti e perciò il mio voto per lei è 0.

Pausa alla gara con Federica Pellegrini e Alberto Tomba che sono padrini delle Olimpiadi invernali di Milano e Cortina 2026 e lanciano un sondaggio per la scelta del logo della manifestazione.

Canta poi il gruppo La Rappresentante di Lista (non sanno più che nomi d’arte inventarsi) che canta “Amare”. La front-girl indossa un abito bianco e gonfio che riempie da solo tre quarti del palco, sembra una meringa. Dietro di lei saltella, pure in bianco, il suo co-leader. Il pezzo ha il sapore del pane bagnato, beninteso quello senza sale. Però è più o meno cantato, e allora merita un 4.

Pubblicità. Mia moglie comincia a guardarmi strano quando vede come reagisco al risucchio della voce che sussurra “Suzuki”. Non è gelosia: teme che voglia cambiare auto.

Ospitata di Umberto Tozzi che ha un doppio mento adatto a un bancario imbolsito più che a una star del pop, ma ahilui il tempo passa per tutti, non sono più gli anni gloriosi di “Gloria”. Il suo medley comunque è gradevole, a dispetto delle incertezze della voce, che soprattutto in “ti amo” e nella stessa “Gloria” va qua e là e fatica a entrare nell’intonazione.

Si continua a perdere tempo per i salamelecchi ad Ibrahimovich poi pubblicità. Finora non ho visto la cellulina dell’acqua Lete, ma con lo spot Tim torna il tizio che masturba il monitor, e il monitor eiacula abbondantemente una strisciata di mega. Sospetto che Tim sia un’abbreviazione di Ti masturbo.

Intanto è arrivata l’una e ancora mancano ancora quattro canzoni.

Annalisa è la diciannovesima cantante in gara con “Dieci”. Ci tiene, come sempre, a mostrare il tatuaggio che ha fra i seni poco sopra lo sterno e la regia pudibonda cerca di evitare di inquadrarla nella zona interessata. Parlo di questo perché sulla canzone non c’è molto da dire, anzi, in effetti non c’è da dire proprio niente: nessuna melodia, il solito recitativo ritmato sul solito ritmo di 4/4 scandito del rap, o semi-rap o pseudo rap che domina il festival. Voto: 5 per via della scollatura.

Arriva la coppia Coma-Cose, con “Fiamme negli occhi”. Lei, che evidentemente non è superstiziosa, è in lungo viola con incongrui stivali bianchi. Se cantano da soli sono sgradevoli e sguaiati, però in coppia lo sono il doppio. In compenso si muovono con l’eleganza di un gorilla che si aggira tra le felci delle foreste pluviali dell’Africa Equatoriale. Anzi, due gorilla. Voto: 2, un punto a ciascuno dei gorilla.

Achille Lauro torna sul palco senza costumi ma i suoi tatuaggi sul viso fanno comunque impressione. Ed è irritante il suo insistere sul fatto che ci sia chi lo critica, quasi che lui fosse sacro e inviolabile. Presenta Lo Stato Sociale che esegue “Combat Pop”. Un momento di ironico e spiritoso rock and roll. Bravi, meritano un 7.

Random non mi mancava ma mi tocca ascoltarlo. Esegue “Torno a te”, vestito stavolta da serra fiorita. Il pezzo esordisce con un breve preludiare pianistico, anche gradevole. Poi, purtroppo, lui comincia a emettere dei suoni associati a non meglio identificabili parole. È convinto di cantare, poveretto, ma è spaventosamente stonato e sguaiato. Ma qualcuno gliel’avrà mai detto che ci sono tanti mestieri onorevoli a cui potrebbe dedicarsi, non ultime le attività agricole, invece di sputtanarsi così? E come ha fatto Amadeus a selezionarlo? Mistero. Impossibile dargli un voto, è inqualificabile. Salvo dargli un voto negativo: -10

Max Gazzè dismette il costume da Leonardo e si traveste da Clark Kent e poi Superman, piuttosto incongruamente, per eseguire “Il farmacista”. Ribadisco che cade in un cliché perché va bene avere uno stile personale, ma continuare a scrivere canzoni tutte sullo stesso ritmo e tutte costruite sullo stesso schema melodico non è più stile ma autoplagio. Voto 6 per rendere merito alla sua storia precedente.

Arriva la rossa Noemi, elegantissima nel suo abito lungo ma incerta sulle scale, non solo quelle del palco. Canta “Glicine”. L’introduzione pianistica è seguita da borbottii da ventriloquo della cantante nei primi versi e non solo quelli. Sarà l’ora tarda, ma anche la voce non è al meglio. L’esecrabile regia (fra luci, carrellate, cambi di inquadrature è una cosa da fucilazione a vita) le manda addosso luci che lanciano inquietanti ombre viola sul suo viso. Voto 4, perché comunque la canzone non sa di niente, nemmeno di pane bagnato e senza sale.

Pubblicità. I finti dentisti che promuovono dentifrici hanno tutti gli occhiali e la barba trasandata, chissà perché. Invece i finti artigiani della qualità di Poltrone&Sofà hanno sempre la solita faccia di tolla.

Penultimo cantante in gara è Fasma che esegue “Parlami”. Ah, già, il solito rap o giù di lì. In più ha uno sgradevole effetto tipo “leslie” nel microfono e tira il fiato in ansiti che fanno impressione, come se stesse tornando in superficie dopo un’immersione alla Maiorca. Voto 2.

E dulcis in fundo (si fa per dire) Aiello, con “Ora”. È imbarazzante. Non sa cantare, ringhia e si aggira sul palco con movenze da comare imbufalita. L’impressione di comare che dà è confermata da certi strilli da ballatoio che lancia a metà dell’esibizione e dagli orecchini pesanti e vistosi che indossa, ma è smentita dalla barba, che poi non è detto perché conosco certe comari che hanno la barba e pure i baffi. Inutile dire che non si capisce una parola. Voto 3.

E ora aspettiamo l’esito del televoto.

Nell’attesa, torna a esibirsi Gaudiano con “Polvere da sparo”, vincitore delle nuove proposte. Gaudiano il caso umano: pare che ieri abbia commosso tutti raccontando non so che storia personale. Massima comprensione per il caso umano, ma io giudico il pezzo e il pezzo resta brutto. Anche se in effetti, sentiti gli altri pezzi delle nuove proposte, di sicuro non era il più brutto.

Ed ecco la classifica: ultimo è Random. Aiello venticinquesimo; Bugo terzultimo; Stato Sociale ed Extraliscio sono a metà classifica, poteva andare peggio.

I peggiori sono meritatamente ultimi ma fra i primi tre, insieme a Ermal Meta, ci sono  Michielin-Fedez e i Maneskin. L’esito non è sorprendente, tenendo conto di chi sono i consumatori di prodotti musicali pop di cui parlavo all’inizio della mia cronaca. Dovendo scegliere preferisco Meta, che ha eseguito l’unica vera canzone fra i tre ma siccome riparte il televoto non sono sicuro che possa vincere.

Intanto i premi accessori: premio della critica a Willie Peyote. Mah. Premio “Lucio Dalla” a Colapesce-Di Martino, doppio mah. Premio per il miglior testo a Madame. Triplo mah.

Premio alla migliore composizione musicale assegnato dall’orchestra a Ermal Meta. E sono d’accordo; ma per il resto, Meta è solo terzo, e i vincitori sono i Maneskin. Beh, meglio loro che Fedez.

E ora a nanna. Domani cura disintossicante con l’ascolto del Don Giovanni di Mozart, la Sesta di Beethoven e il “Magnificat” di Bach. Non mi dite che sono spocchioso e saputo: è che mi disegnano così. E adesso, se ci riuscite, dài: canticchiatemi la canzone che ha vinto il festival non dico tre o due anni fa o l’anno scorso: canticchiatemi quella che ha vinto quest’anno.

Insomma, tanto per cambiare, anche questo festival è destinato a scivolare via nel dimenticatoio come le foglie dell’ultimo autunno, come gli ultimi governi italiani o come l’acqua nel bidet.

Giuseppe Riccardo Festa

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