Miei cari ventiquattro lettori, in questa calda giornata estiva concedetemi, fra una bibita e una pennichella, una riflessione semiseria sul gran parlare che si fa, sui social network, di questo e di quello, di tutto e di più, e soprattutto del modo in cui lo si fa. Vi prego altresì di non divulgare troppo in giro queste riflessioni, perché, come potete immaginare, qualcuno potrebbe prendersela a male.
Oramai lo sappiamo: la possibilità di commentare è diventata una pulsione a farlo: su qualsiasi argomento e senza stare lì troppo a preoccuparsi di essere certi di sapere di cosa si sta parlando. Capita così che l’immunologo di chiara fama si senta dare del venduto alle case farmaceutiche dalla massaia che non vuole vaccinare il figlio (il cugino della cognata del vicino di uno zio di terzo grado ha letto da qualche parte che fanno male), che l’economista si veda invitare a studiare dal tassista che vuole l’Italia fuori dall’euro, il difensore dei diritti umani se ne senta dire di tutti i colori dal leghista di turno che odia i profughi, tutti “negri, musulmani terroristi, ladri e stupratori”, o, nella migliore delle ipotesi, “gente che viene a mangiare a sbafo negli alberghi a quattro stelle a casa nostra, mentre invece i nostri poveri…”
Tutto questo oramai si dà per scontato: il principio per cui per parlare di un argomento, quale che esso sia, bisognerebbe dimostrare di conoscerlo, oramai non vale più. Dunque, senza scomodare Umberto Eco che al riguardo, da par suo, disse la sua, le bordate di frasi fatte, pregiudizi, insinuazioni e minacce che riempiono i post dei social network sono un fatto acquisito: bisogna portare pazienza.
Però, miei cari lettori, oltre al già insopportabile contenuto c’è anche la forma; e quella mi dà un fastidio, ma un fastidio, che manco un esercito di zanzare nelle paludi della Maremma in un giorno d’agosto. Frasi sconnesse, verbi al condizionale anziché al congiuntivo, concordanze a casaccio, ortografie sperimentali: un esercito di semianalfabeti ha scoperto di poter dire la sua ed esibisce rumoroso e supponente i propri strafalcioni; magari scrivendo tutte le lettere in maiuscolo, caso mai a qualcuno sfuggisse il loro contributo allo sproloquio nazionale.
E guai se glielo fai notare: ti dànno dell’arrogante e del presuntuoso, perché loro mica hanno potuto perdere tempo sui libri (sottinteso: come te): eh, no, avevano di meglio da fare, loro. Di solito la scusa è che hanno cominciato a lavorare da giovani, quasi che lavorare impedisca di leggere non dico un libro, non dico una rivista o un giornale, ma almeno un fumetto ogni tanto, o al limite una rivista pornografica dove, fra una tetta e un culo, qualche frase di senso compiuto ogni tanto c’è (sì, miei cari ventiquattro lettori: all’epoca degli ormoni galoppanti ne ho sfogliata qualcuna anch’io. Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra). Anche se concedo che, su quelle riviste, si sia portati più che altro a guardare le figure.
Per inciso, io pure ho cominciato a lavorare da giovane, a sedici anni; ma non ho mai pensato che questo potesse essere un alibi per giustificare ignoranza e superficialità. Ho lavorato e studiato, dedicando un amore particolare alla nostra bellissima, elegantissima e dolcissima lingua, la più bella del mondo, che tanti frequentatori dei social network trasformano in una caricatura di sé stessa. I social network dànno a qualunque cialtrone l’illusione di potersi improvvisare giornalista, ma non è così.
Attenzione, non sto dicendo che voglio togliere il diritto di parola agli ignoranti: sto dicendo che gli ignoranti dovrebbero ammettere di esserlo. Io, per esempio, sono ignorante in un sacco di campi, dalla matematica alla fisica nucleare, dalla biologia alla filologia romanza, dalla storia della Cina alla filosofia Zen, dalla letteratura indiana alla tecnica elettronica, dalla logica informatica alle culture mesoamericane precolombiane, e in un sacco di altre discipline. E non mi azzardo a sparare pareri o giudizi al riguardo: non si monta un motore se non si possiedono gli attrezzi necessari o se non si sa usarli.
Chi non sa scrivere, per favore, legga, studi, impari a farlo. Tra l’altro è una cosa bellissima. Non vuole farlo? Allora cerchi di non far subire al prossimo i suoi sproloqui.
Vuole comunque far subire al prossimo i suoi sproloqui? E va bene. Però, allora, se qualcuno gli fa notare che non sa scrivere, si astenga dall’insultare quel qualcuno arrivando magari, tutto altezzoso, a dire che “È meglio essere ignoranti che presuntuosi”, dimostrando così che proprio lui, oltre che ignorante, è pure un bel po’ presuntuoso, e anche indecente.
Perché ammettere la propria ignoranza è doveroso; ma vantarsene è indecente.
Giuseppe Riccardo Festa
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