
■Antonio Loiacono
C’è una lettera che, più di tante parole istituzionali, riesce a toccare il cuore ed a scuotere le coscienze. Non è un documento tecnico né un protocollo sanitario: è il grido di chi lotta ogni giorno contro un nemico invisibile, che si chiama cancro. La voce di Isabella, malata oncologica di Corigliano-Rossano, è diventata il simbolo di una battaglia che non riguarda solo la sanità, ma la dignità umana. La sua lettera aperta al Presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto ed alla Presidente della III Commissione Sanità Pasqualina Straface non è un semplice appello: è un manifesto di resistenza, un invito a guardare oltre i numeri e le logiche amministrative per considerare l’essenza stessa del prendersi cura.
Per chi non vive la malattia, il trasferimento del Reparto di Oncologia dall’ospedale Giannettasio di Rossano a quello di Corigliano potrebbe sembrare una questione di logistica sanitaria. Ma per Isabella, e per tanti pazienti come lei, è una ferita profonda. Non si sposta solo un servizio, si sradica un pezzo di vita, di abitudini diventate ancora più preziose proprio perché immerse in un quotidiano fatto di incertezze e dolore.
Il Reparto di Oncologia di Rossano non è solo un insieme di stanze e macchinari: è un rifugio emotivo, un luogo dove la sofferenza si intreccia con la speranza, dove i visi dei medici e degli infermieri diventano familiari, ed ogni angolo racconta una storia di coraggio. Isabella lo descrive con parole semplici e potenti: “un luogo dove troviamo supporto, cure e, soprattutto, speranza”.
La riorganizzazione prevista, che mira a distinguere tra area medica e area chirurgica rispettivamente a Corigliano e Rossano, ha una logica strategica sul piano tecnico. Ma la sanità non può essere ridotta ad un freddo schema di efficienza: dietro ogni decisione ci sono persone, vite reali, fragilità che non si possono contabilizzare.
Come sottolinea la lettera, le esigenze dei pazienti oncologici sono particolari. Non si tratta solo di sottoporsi a cicli di chemioterapia: ci sono procedure delicate, come l’inserimento e la gestione del PICC (catetere centrale a inserzione periferica), che richiedono ambienti e competenze ben collaudati. Spostare il reparto significherebbe interrompere un equilibrio delicato, costruito negli anni grazie all’esperienza di un’équipe affiatata ed alla fiducia instaurata con i pazienti.
Isabella e gli altri pazienti oncologici non chiedono privilegi, ma di non essere lasciati soli. La loro battaglia non è contro un’amministrazione, ma contro l’indifferenza che spesso si nasconde dietro le scelte burocratiche.
In una regione come la Calabria, dove le criticità del sistema sanitario sono note e diffuse, il mantenimento di un reparto oncologico efficiente rappresenta non solo una necessità, ma un diritto fondamentale. È un presidio di umanità, oltre che di salute.
L’appello di Isabella dovrebbe essere un campanello d’allarme per le istituzioni. Non basta rispondere con comunicati o promesse vaghe. Serve un confronto reale, un ascolto attivo. La politica deve farsi carico di questa responsabilità, trovando soluzioni che mettano al centro i bisogni concreti dei pazienti.
Forse la domanda da porsi è semplice: “Se fosse mia madre, mio figlio, o io stesso a dover affrontare questa battaglia, cosa farei?”
La lettera di Isabella ci ricorda che la sanità non è fatta solo di ospedali e reparti, ma di persone. Il cancro non guarda in faccia nessuno, scrive. E neanche la dignità dovrebbe farlo. Le abitudini, le piccole certezze quotidiane, i volti amici: per chi lotta contro una malattia devastante, tutto questo fa la differenza.
Non lasciamo che questa voce rimanga inascoltata. Non è solo un reparto: è la speranza di vivere. E la speranza non merita di essere trasferita.
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