Con un passo che ricorda le ombre del passato più oscuro, il Governo ha accolto durante la discussione sul ddl sicurezza un ordine del giorno firmato dal deputato leghista Igor Iezzi. L’obiettivo? Aprire una commissione o un tavolo tecnico per valutare la possibilità di introdurre, per i condannati di reati di violenza sessuale, percorsi di assistenza sanitaria psichiatrica e farmacologica, con la possibilità di “blocco androgenico” – in parole povere, la castrazione chimica!
Un ritorno alla pratica della castrazione chimica, proposta come misura “di sicurezza” sotto la maschera del rispetto dei “principi costituzionali”, è quanto di più inquietante si potesse immaginare. Nonostante l’apparente consenso del condannato, l’idea che uno Stato democratico possa anche solo pensare di aprire un tavolo su una pratica del genere evoca tempi in cui la giustizia era più simile alla vendetta che alla rieducazione. L’annuncio di Iezzi, fatto la scorsa estate, diventa ora una realtà che scuote profondamente il dibattito pubblico.
La castrazione chimica, presentata da alcuni come una soluzione radicale ai crimini sessuali, non solo solleva interrogativi etici, ma anche seri dubbi sulla sua reale efficacia. Diversi studi hanno mostrato come questo tipo di trattamento non elimini il problema alla radice, non affrontando le cause psicologiche e sociali che portano alla violenza sessuale. Il rischio è che questa misura diventi una scorciatoia, un palliativo che permette alla politica di evitare di affrontare questioni più profonde e complesse legate all’educazione, alla prevenzione ed al supporto per le vittime.
Inoltre, la “volontarietà” del trattamento è un concetto altamente discutibile. In un sistema giudiziario che ha il potere di decidere sulla libertà degli individui, quanto può essere libero un condannato di accettare una proposta che potrebbe avere un impatto così profondo ed irreversibile sulla sua vita? Si rischia di creare un sistema in cui chi subisce questa forma di “trattamento” è indotto a farlo sotto la pressione di un’alternativa peggiore, minando il concetto di consenso informato e rendendo questa pratica una sorta di ricatto medico-legale.
In un clima politico sempre più incline a proporre soluzioni estreme e punitive, la proposta della Lega fa riemergere un approccio securitario che rifiuta di riconoscere la complessità dei problemi sociali. Piuttosto che investire in prevenzione, educazione e sostegno psicologico, si cerca la via più breve e spettacolare, quella che permette di gridare al “successo” politico, ma che nei fatti non risolve nulla. La castrazione chimica, con la sua connotazione medievale e autoritaria, diventa così un simbolo di un governo che preferisce la repressione alla giustizia sociale, la punizione alla riabilitazione.
Non si può non osservare come questa scelta si inserisca in un quadro più ampio di misure securitarie che evocano un ritorno al passato. Dai decreti sicurezza, ai limiti posti sull’accoglienza dei migranti, alla retorica martellante su “law and order”, il governo italiano sembra muoversi in una direzione che privilegia il controllo e la repressione rispetto ai diritti ed alla tutela delle persone più vulnerabili.
Accettare un tavolo tecnico che discuta la castrazione chimica non significa solo introdurre una misura specifica contro i reati sessuali, ma crea un pericoloso precedente. Dove si fermerà la giustizia penale quando avrà iniziato a intervenire sul corpo umano in questo modo? Quali altre aree della vita delle persone saranno considerate “manipolabili” per garantire la sicurezza collettiva? E, soprattutto, chi deciderà chi è “meritevole” di un trattamento del genere?
La società democratica deve saper trovare soluzioni giuste ed efficaci ai crimini, ma deve farlo senza abdicare ai propri valori fondamentali. Le proposte come la castrazione chimica non fanno che tradire il principio di umanità e rispetto della dignità umana su cui si fonda lo Stato di diritto.
L’iniziativa di Iezzi e della Lega dimostra ancora una volta la tendenza populista di questa classe politica: intercettare le paure e le rabbie della popolazione, sfruttarle per ottenere consenso e proporre soluzioni superficiali, che colpiscono l’immaginario collettivo ma che mancano di profondità e reale efficacia.
Il governo attuale, con la sua continua ricerca di misure punitive, non fa che alimentare una visione di giustizia punitiva, basata sull’umiliazione e sul controllo. Un approccio che, oltre a non risolvere i problemi, rischia di spaccare ulteriormente il tessuto sociale, creando una società sempre più basata sulla paura e sull’autoritarismo.
É fondamentale che il dibattito pubblico italiano si opponga fermamente ad iniziative come questa, che riportano il Paese indietro di secoli e minano i diritti fondamentali delle persone. La giustizia non può trasformarsi in una forma di vendetta, ed uno Stato moderno deve saper proteggere la propria popolazione senza violare i principi di dignità e umanità che sono il fondamento di ogni società civile.
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