Il festival di Sanremo e l’inspiegabile entusiasmo dell’Accademia della Crusca.

Sono sbigottito. O forse no, sono avvilito. O meglio ancora, sono sia sbigottito che avvilito. La causa del mio scoramento è dovuta al fatto che nella persona del professor Lorenzo Còveri, docente di Linguistica Italiana all’università di Genova, l’Accademia della Crusca si stia dedicando all’esegesi dei testi delle canzoni che saranno presentate all’imminente festival di Sanremo.

Il professor Còveri, leggo su Google, da anni si occupa del rapporto tra la canzone e la letteratura. Attività encomiabile, in linea di principio: i bacchettoni, infatti, affermano categoricamente che nelle canzoni non bisogna cercare la poesia, perché la poesia è un’altra cosa. Smentiti, i bacchettoni, dai testi di autori del calibro di Fabrizio De André, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Roberto Vecchioni e anche Mogol (rileggete il testo di “Emozioni”, musicata da Battisti, e sicuramente mi darete ragione).

Perfino al festival di Sanremo, di tanto in tanto, è capitato che i testi avessero un certo valore artistico e perfino poetico: penso a “La nevicata del ‘56”, per esempio, di Franco Califano, interpretata dall’insuperabile Mia Martini, o a “Chiamami ancora amore”, del già citato Roberto Vecchioni: le eccezioni ci sono ma sono, appunto, eccezioni.

Ultimamente, poi, l’astuto Amadeus ha portato a Sanremo un giovanilismo spinto avvicinando a Sanremo i padroni del mercato discografico, delle visualizzazioni su YouTube, dei “download”, e dei processi digitali che stanno sostituendo il mercato discografico, ossia i ragazzini fra i 13 e i 19 anni. Ciò ha fatto sì che il linguaggio della canzone sanremese subisse un ulteriore avvilimento, poiché gli autori selezionati da Amadeus usano gli stessi linguaggi dei fruitori di quelle canzoni: sul piano musicale il rap ha così sostituito quasi completamente la canzone tradizionale, dando la priorità assoluta al ritmo martellante tipico di quella forma di comunicazione – comunicazione, non musica – ed annullando l’idea di melodia, di strofa e di ritornello mentre, sul piano del linguaggio, i testi si sono spostati verso la struttura della filastrocca e verso la povertà lessicale; la dizione, dal canto suo, è del tutto trascurata e le filastrocche in questione sono sovente pronunciate con voci strascicate, smozzicando le parole e con grevi cadenze dialettali.

Quanto al valore letterario, le stesse esegesi del professor Lorenzo Còveri ne dimostrano la totale inesistenza: Còveri non esita a definire i testi ovvii, scontati e ripetitivi e le rime stucchevoli e banali. Però, inspiegabilmente, a quegli stessi testi (si veda ad esempio il 7,5 che dà al brano che sarà interpretato dalla cantante Giorgia), dà voti che raramente sono al disotto della sufficienza. Il suo stesso modo di esprimersi, d’altra parte, è ben lontano da quello che ci si aspetterebbe da un accademico della Crusca: zeppo di anglicismi e infarcito di frasi parentetiche, sembra voler, anch’esso, imitare il giovanilismo di Amadeus e, anziché invitare i lettori a migliorare il loro vocabolario e la loro sintassi, associarsi alla sciatteria e alla povertà linguistica imperanti.

L’Accademia della Crusca giustifica la fatica del professor Còveri definendola un gioco, ma non posso fare a meno di rilevare che poche cose, al mondo, sono serie e importanti come il gioco. Attraverso questa sua (purtroppo) entusiastica lettura di quei testi, il professore, non so quanto inconsapevolmente, legittima la china discendente che il livello medio culturale ha preso nel nostro Paese. Le accozzaglie di parole, le rime insulse, gli ossimori, gli accostamenti improbabili e le non poche volgarità di cui i testi in questione sono infarciti, per il fatto stesso di essere pubblicamente discussi e analizzati da un accademico della Crusca sono così proposti alla stregua di normali esercizi di stile, modelli da seguire degni di attenzione non come fenomeni sociologici ma come fatti artistici e culturali.

È giusto ed è doveroso, certamente, che la Crusca studi i fenomeni lessicali e l’evoluzione del  linguaggio. Meno giusto, e tutt’altro che doveroso, mi sembra però che questa antica e benemerita istituzione di questa evoluzione benedica entusiasticamente gli aspetti deteriori appiccicando anch’essa, come un qualunque DJ, la qualifica di artista, se non addirittura di poeta, al primo Mahmood, Olly o Paola&Chiara che passa.

Giuseppe Riccardo Festa

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