Giuseppe Conte: la riscossa di Normalman (finché dura)

C’è una costante nella storia d’Italia che comincia in tempi remotissimi: la voglia di avere un capo, un eroe di riferimento, qualcuno da mettere sul piedistallo e dal quale aspettarsi miracoli. Si cominciò in quel mitico 21 marzo del 753 avanti Cristo quando Romolo, il primo salvatore, anzi, fondatore della Patria scavò il solco che delimitava il confine della futura Città Eterna. Lui non solo si continuò ad adorarlo finché campò ma addirittura pure dopo; ma non andò altrettanto bene ai suoi successori.

Scacciati i re, per qualche secolo i Romani fecero a meno dei salvatori della patria ma Annibale li costrinse a scegliersi un dittatore, e loro optarono per Quinto Fabio Massimo, il famoso temporeggiatore: in pratica uno che decideva di non decidere, inaugurando una tradizione che poi si nei governi italiani ebbe molto successo.

Scartato Fabio Massimo si passò a Scipione l’Africano, che sconfisse definitivamente Annibale e per qualche tempo fu osannato e ammirato; poi, però, si decise che era troppo osannato e ammirato, e lo si costrinse all’esilio. Lui, amareggiato, se ne andò profferendo la famosa invettiva: «Patria ingrata, non avrai le mie ossa!» I salvatori della patria, infatti, finiscono spesso, dalle nostre parti, per diventare nemici della patria: alla fine della Repubblica, Mario, Silla, Pompeo, Cesare, Bruto, Cassio, Cicerone e Marco Antonio, per un po’ furono osannati ma poi osteggiati e quasi tutti fecero una ben triste fine.

Venendo a tempi più recenti, il popolo romano adorò Cola di Rienzo e quello napoletano il pescivendolo Tommaso Aniello, detto Masaniello, salvo poi far fare a entrambi a pezzi; e più recentemente ancora, praticamente ieri, Mussolini è stato per vent’anni un adorato duce, ma poi ha fatto la fine che ha fatto. Qualche decennio dopo Bettino Craxi è passato dagli allori alla latitanza e, scendendo a livelli ancora più modesti, Antonio Di Pietro, Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Beppe Grillo e ora Matteo Salvini hanno vissuto momenti di gloria via via sempre più effimeri, scaricati da quello stesso popolo che avevano invocato, a volte aizzato, sempre lisciato.

Ma quel popolo, comunque, ogni volta che ne scarica uno si mette subito alla spasmodica ricerca di un nuovo capo. È, si direbbe, più forte di lui.

Accade così un fatto straordinario: dopo aver successivamente invocato e poi scaricato i citati presunti geni della politica o della finanza o dello spettacolo, o come Berlusconi di tutti e tre i campi contemporaneamente, ora quel popolo si rivolge al meno probabile dei salvatori: Giuseppe Conte, un uomo venuto fuori dal nulla, un oscuro professore di diritto che era stato scelto proprio perché era e affinché restasse oscuro, un re travicello che nelle intenzioni dei suoi sponsor (Di Maio e Salvini, nel precedente governo) avrebbe dovuto solo avallare le loro decisioni: cosa che in effetti fece, tirandosi addosso ironie, sberleffi e motteggi da tutte le direzioni e da tutti i commentatori, compreso chi ora scrive queste note.

Poi, convinto di andare alle elezioni e di poter finalmente realizzare il suo sogno di assurgere ai “pieni poteri”, Matteo Salvini sfiducia il suo stesso governo; Di Maio esegue un triplo salto mortale carpiato con avvitamento all’indietro, si allea col PD e manda in fumo i sogni di Salvini, facendo nascere un nuovo governo. E insiste, Di Maio, convinto di poter continuare a manovrarlo, perché a capo di quel governo ci sia ancora Giuseppe Conte. Il PD per un po’ nicchia, poi cede.

Ma, è qui che succede un colpo di scena che manco Hitchcock: Giuseppe Conte, l’agnello sacrificale, il re travicello, l’uomo senza qualità, inaspettatamente tira fuori grinta, unghie e zanne e prima risponde per le rime, ma con pacatezza, a Salvini che credeva di togliergli la poltrona da sotto il sedere, poi diventa per davvero presidente del Consiglio. Scoppia per giunta la crisi più grave e imprevedibile nella storia della Repubblica dopo la fine del fascismo e lui, sempre pacato e sempre imperturbabile, si dà da fare, agisce, organizza e coordina; le iniziative avviate dal governo italiano sono approvate addirittura dall’OMS, e altri governi che prima ridevano sotto i baffi hanno finito per imitarle. Insomma, Giuseppe Conte  si dimostra all’altezza della situazione, o almeno dà questa sensazione, anche perché d’un tratto sparisce dal suo fianco l’ingombrante e imbarazzante figura di Rocco Casalino, un addetto stampa che molti ritenevano, in realtà, la longa manus del burattinaio Davide Casaleggio.

E gli italiani, tanto per cambiare, s’innamorano dell’ennesimo uomo della Provvidenza. Che però, diversamente da tutti i suoi predecessori, non promette mari e monti, non gonfia il petto e non garantisce miracoli. Da giurista qual è, si muove col buon senso e con la tranquilla determinazione di quella che i codici definiscono “La diligenza del buon padre di famiglia”. Forse è per questo che piace tanto: in un momento così buio, così carico di incertezze e di angosce, alla gente piace in fondo potersi rivolgere verso qualcuno che sia normale, che sia armato di buonsenso e ragionevolezza.

E così, ora, o per meglio dire per ora, l’uomo normale Giuseppe Conte è sugli scudi ed è osannato come Salvatore della Patria. Perché per ora? Perché la storia insegna che i salvatori della Patria, veri o presunti, sono di solito strumenti usa e getta. I salvatori della Patria sono invocati, regolarmente, e poi scartati, dalla gente che ha un bisogno disperato di ammirare, adorare, invocare e ubbidire a un capo; ma mai a tempo indeterminato.

Il che è anche ovvio: quando uno ha bisogno di un capo, è lapalissiano, è perché manca di testa.

Giuseppe Riccardo Festa

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