Politica è una parola antica che nacque in Grecia quando gli abitanti delle città-stato di quella penisola, soprattutto di Atene, smisero di essere sudditi e diventarono cittadini: fu allora che nacque il concetto di “amministrazione della città” che possiamo utilizzare per rendere il senso originale della parola. Sostituiamo “città” con “stato”, e otteniamo il significato attuale del termine, tenendo bene a mente che “amministrazione” non significa fare i conti della serva ma piuttosto decidere cosa va fatto per offrire ai cittadini il massimo possibile grado di felicità o, più pragmaticamente, per ridurre quanto più possibile le cause di infelicità.
Questa premessa implica che chi si occupa di politica dovrebbe possedere alte virtù civiche (prima fra tutte il disinteresse), profonda cultura, elevate competenze, spiccate capacità progettuali e lungimiranza. Essa implica anche che chi sceglie coloro che debbono occuparsi di politica, ossia il cittadino elettore, dovrebbe a sua volta possedere un minimo di buonsenso e di capacità di discernimento; sia gli uni che gli altri, infine, dovrebbero saper mettere l’interesse collettivo al di sopra del proprio interesse personale: i politici considerando la loro attività come servizio, il cittadino imparando a guardare oltre i limiti angusti del proprio egoismo.
Le macerie della politica italiana dimostrano quanto nel nostro Paese si sia lontani dal possedere i requisiti che ho appena descritto.
Per l’ennesima volta gli italiani, incapaci di selezionare una classe politica degna di questo nome, hanno avuto bisogno di uomini della Provvidenza: di un mago Merlino (il Presidente Mattarella) capace di individuare il re Artù (Mario Draghi) a sua volta capace di tirar fuori dalla roccia una spada (la politica nazionale) incastrata senza rimedio nel suo immobilismo e nella sua autoreferenzialità ai quali, uscendo di metafora, vanno aggiunte un’incoerenza e una faccia tosta disarmanti.
Il grillismo nasce all’insegna dell’anti-tutto: antipolitica, antieuropeismo, decrescita economica, uscita dall’euro, rifiuto della competenza e ora si rivela entusiasta promotore dell’Europa, della crescita economica, della difesa della moneta unica e si affida al più competente dei tecnocrati. Il leghismo salviniano smentisce sé stesso dapprima dicendosi innamorato di una bandiera che prima voleva usare a mo’ di carta igienica e andando a raccattare voti in quel Sud dal quale voleva staccarsi per far nascere una fantomatica nazione chiamata Padania, poi dimenticando il suo provinciale nazionalismo per applaudire quel Mario Draghi che del suo provincialismo nazionalista, se non regionalista, è la negazione più totale; il PD si dimostra incapace di progettare, di immaginare una linea politica e di meritare la scomoda eredità delle due anime che incorpora e che forse, annullandosi a vicenda, sono la causa della sterilità della sua azione.
Dulcis in fundo Matteo Renzi, il cui ipertrofico ego è stato il catalizzatore del disastro cui stiamo assistendo, ora si vanta di essere, al contrario, il motore di una rinascita che, se ci sarà, non potrà di sicuro essere attribuita a lui o a qualunque altro esponente della politica nazionale.
Non dimentico, naturalmente, la destra estrema di Giorgia Meloni, alla quale sola va riconosciuto il merito della coerenza. Ma c’è ben poco di meritorio nell’essere coerentemente reazionari, provinciali e neofascisti come la triste esperienza della Regione Marche sta dimostrando.
Ora, con la sola eccezione di FdI, tutti i partiti sono al governo. Tutti si vantano di essere là per far risorgere l’Italia ma nessuno è stato capace di farlo senza dover ricorrere a qualcuno che non appartiene alla classe politica, quella classe politica che le crisi è bravissima a provocarle ma assolutamente incapace di risolverle.
Attenzione, però: la classe politica non nasce dal nulla ma è frutto della società che la esprime. Se dunque in quella classe politica il cittadino vede avidità, incompetenza, ignoranza, arrivismo, supponenza, inettitudine e miopia, farà bene a smettere di urlare il solito “sono tutti uguali”.
Dovrebbe chiedersi, piuttosto, se quel “sono” non vada sostituito con un triste, amaro e onesto “siamo”.
Giuseppe Riccardo Festa
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