Castelli di rabbia

L’onestà, di cui si parla tanto, e le regole, di cui si parla molto di meno, hanno, perlomeno in Italia, una caratteristica in comune: la maggior parte degli italiani ha infatti la curiosa caratteristica di esigere ferocemente che sia l’una che le altre siano rispettate dal resto dell’umanità, ma applicate con la massima possibile elasticità se sono loro a doverlo fare.

Dalle cartacce e dalle cicche buttate dove capita agli idraulici, ai meccanici ed ai carrozzieri pagati o che si fanno pagare in nero; dall’evasione fiscale e dalla caccia alla raccomandazione per imbucare in qualche ufficio pubblico il figlio un po’ coglione all’auto lasciata in doppia fila o nel riquadro riservato agli invalidi, su su fino alla bustarella accettata o pretesa per erogare un servizio pubblico o al patto elettorale illecito col mammasantissima locale, sono innumerevoli i comportamenti che tutti guardano col ciglio corrugato, e condannano senza pietà, ma solo se a compierli sono gli altri. Se gli stessi comportamenti interessano loro, invece, fioccano le giustificazioni, i distinguo, le alzate di spalle: le regole le invochiamo quando ci fa comodo, ma le detestiamo quando limitano la nostra libertà di azione, se non di arbitrio.

Non mi stupiscono quindi le reazione furibonde alla fermezza del Presidente Mattarella, ed alla sua inamovibile decisione di attenersi alle regole dettate dalla Costituzione. Quelle stesse regole, giova ribadirlo, che i suoi contestatori  avevano difeso con tanto vigore, ma  evidentemente senza conoscerle, votando “no” al referendum del 4 dicembre 2016.

Alcuni di quegli stessi difensori della Costituzione invocano oggi a gran voce l’impeachment del Presidente che ha osato applicarne le regole, comportandosi come quei tifosi di calcio che, se la loro squadra subisce un calcio di rigore, se la prendono con l’arbitro che lo ha decretato, e non col loro terzino che ha steso l’avversario in area.

Così, sconfitto dall’indisponibilità di Mattarella a nominare ministro un nemico dichiarato dell’Europa, Giuseppe Conte ha rinunciato al mandato e se n’è andato dal Quirinale a bordo dello stesso taxi vuoto dal quale (per citare Churchill) era sceso cinque giorni prima per ricevere, secondo le sue parole, l’incarico di “formare un governo di cambiamento” (in realtà, l’incarico era di “formare un governo”: la qualifica “di cambiamento” di certo non gliel’ha attribuita il Presidente Mattarella); e subito, da più parti, si sono levate le voci furibonde di chi afferma di parlare “a nome del popolo”. Matteo Salvini in particolare, sulla scorta dell’esempio e dell’insegnamento di Bossi e Mussolini, che sono evidentemente i suoi statisti di riferimento, non ha perso l’occasione di minacciare una nuova marcia su Roma.

Io non sono il popolo: sono uno dei tanti cittadini che, pur avendo mille difetti, credono nel rispetto delle regole e non amano chi usa toni minacciosi e irriguardosi nei confronti di chiunque; men che meno nei confronti di chi con pacatezza, competenza, coerenza, signorilità, fermezza e senso dello Stato – insomma, comportandosi da grande italiano – rappresenta le istituzioni. La rabbia, le minacce e la frustrazione di chi, smanioso di accedere al potere, avrebbe voluto imporre al Quirinale una lettura tutta sua delle regole si spiegano con l’insofferenza dell’italiano medio nei confronti di quelle stesse regole.

A conferma della triste constatazione che non si può, nello stesso tempo, essere un grande italiano, come Sergio Mattarella, e un italiano medio, per non dire mediocre, come gli altri.

Giuseppe Riccardo Festa

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