SANREMO, QUARTA SERATA

Si comincia con l’entrata di Carlo Conti insieme ai finalisti delle nuove proposte. Breve riassunto delle loro canzoni, ma non basta: bisogna riascoltarli tutti e quattro. Si comincia con Mahmood, il clone di Sandokan che canta con la pagnotta in bocca e, quel che è peggio, sembra sempre sul punto di vomitarla. La musica della sua canzone, sull’ansimante con moto, fa pensare ai soffietti che si usavano un tempo per attizzare il fuoco nei camini.

Poi Francesco Gabbani ripropone la sua faccia da schiaffi e la sua provocatoria “Amen”. Mi è decisamente simpatico, a maggior ragione perché la sua canzone non parla di sofferenze e depressioni varie ed è anche blandamente blasfema.

Chiara Dello Iacovo torna con “Introverso”. Il pezzo è gradevole, una ballata un po’ stile Arisa prima maniera. Anche lei sa proporsi bene e non ha timidezze davanti alle telecamere. Piccola e tutta pepe. Ha un futuro.

Infine “Odio le favole”, di Ermal Meta. Si è disegnato l’arcobaleno in fronte, ma questo non migliora la qualità del suo mediocre pezzo. Nella mia classifica personale è terzo, seconda Dello Iacovo e primo Gabbani. Sandokan lo vedo quinto . Sì, lo so che i pezzi sono solo quattro. Ma lui per me è quinto.

Pubblicità. Da vecchio porco quale – modestia a parte – sono, noto le chiappette di una ragazza perfetta usate per dimostrare che non so quale prodotto di bellezza cura la cellulite. Sfido: sono buono anche io a curare la cellulite, soprattutto quando non c’è.

Torna Conti con la grande delusa di ieri sera, Morticia Addams alias Miele, e purtroppo bisogna riascoltarla. Vediamo se anche stasera mentre canta le scappa la pipi. Pare proprio di sì, e la regia lo mette bene in evidenza inquadrando il moto convulso delle sue gambe. Ma perché non la fa prima di salire sul palco? Finita l’esibizione di Morticia, che si prende la sua dose di volonterosi applausi di consolazione, tornano i cosiddetti big.

Li ripropongono tutti, miodio. Ma allora a che è servito il voto delle prime due sere?

Prima in gara, torna Annalisa con “il diluvio universale”. Lei è bella e fatale, in abito lungo nero, ma la canzone resta quello che era: una deprimente contemplazione della realtà con corollario di sogno di fuga; in conclusione, un’istigazione al suicidio.

Evviva, c’è Virginia Raffaele che fa Belen. Sublime, esilarante, unica. Ma purtroppo subito dopo bisogna subire gli Zero Assoluto che ricantano, tutti ispirati, scambiandosi complici occhiate compiaciute, “Di me e di te”. Strano titolo, per una canzone che in realtà non sa né di me né di te. La cosa più giusta di questa coppia è il nome, che li rappresenta alla perfezione.

Torna anche Gabriel Garko che è nel mondo dello spettacolo ciò che Pierferdinando Casini è in politica: inutile ma bello. Presenta Rocco Hunt, il rapperetto casertano, e io tolgo il volume al televisore.

Terminata la scomposta esibizione di Rocco Hunt ecco Irene Fornaciari con la sua “Blu”. La canzone è intensa e anche dura, con la sua denuncia delle morti in mare. A me piace, anche se la musica non è un granché, ma non è adatta a Sanremo: testi del genere non dovrebbero partecipare al concorso, perché i malpensanti potrebbero sospettare che sfruttano le sciagure altrui. Io credo nella sincerità di Irene e spero sinceramente, già l’ho detto, che vinca il premio della critica per il testo.

È il turno di Madalina Ghenea, splendido manichino per vaporosi abiti da sera. Purtroppo, anche se è consapevole di non saperlo fare, insiste a credere di poter parlare. Introduce Caccamo e Iurato con la loro “Via da qui”. Lei, tutta in nero, ha un che di vedovile. C’è sempre quell’orribile rima di “bugia” con “andare via” in una canzone confezionata apposta per il festival che, ci scommetto, non durerà più di una settimana.

Pubblicità. Un gruppo di magnifiche gnocche in minigonna tra i venti e i venticinque va a scuola di trucco. Non so se convinceranno le loro coetanee, ma sicuramente attirano l’attenzione di vecchiacci bavosi, tipo me, che però il make-up non impareranno mai a usarlo. Anche se non si può mai dire.

Enrico Ruggeri lo ascolto volentieri, con la sua “Il primo amore non si scorda mai”. Bel ritmo, melodia fresca e accattivante, testo con immagini originali. Proprio bravo.

Torna Belen, cioè Virginia Raffaele, con trovate sempre originali, graffianti e geniali. Presenta Francesca Michielin, che stasera è tutta in rosso e, nonostante le finestre sui fianchi del vestito, è sexy come un manico di scopa. Ripropone “Nessun grado di separazione”. Muove le braccia e le mani come se usasse il linguaggio dei sordomuti e canta le sue rime in -zione seguitando a somigliare alla Pausini, ma molto in piccolo.

Pubblicità. Non prendo nota degli spot perché vado a fare la pipì.

Torna la squinzia Ghenea e presenta Elio e le Storie Tese con “Vincere l’odio”. A dispetto della presentazione in pseudo-italiano della Ghenea ci si diverte un po’. Elio e la sua ghenga si sono conciati con certi mascheroni che imitano il lifting di Patty Pravo e indossano vestiti kitsch che solo loro possono indossare. Di vincere il festival gli interessa poco, sanno che venderanno moltissimo tra i loro fan.

Subito dopo tocca proprio a Patty Pravo con la sua “Cieli immensi”. La canzone la prima volta che l’ho sentita mi è sembrata brutta, ma stasera scopro che è pure lassativa. Lei in compenso si conferma rigida, incerta nell’intonazione e corta di fiato, espressiva in volto come la musica piatta della sua canzone. Perfetta per andare in finale.

Pubblicità. Il Mulino Bianco di Banderas e il fustino di Dash. Siamo in fascia protetta e per i preservativi è ancora presto, ma va comunque in onda l’annuncio di The voice of Italy con la Carrà, Fedez coperto di tatuaggi che manco la Cappella Sistina, e Max Pezzali che sembra un pensionato davanti all’INAM in attesa dell’esame delle orine. Uno spot che è molto più osceno di un onesto profilattico.

Primo ospite, Enrico Brignano. Simpatico, anche se un po’ si ripete. Poi purtroppo torna Garko, a introdurre Alessio Bernabei che si presenta con addosso una specie di giacca da camera per eseguire “Noi siamo infinito”. Bernabei ha un modo buffo di cantare, arricciando il naso a ogni fine di verso. Saltella sul palco ma il pezzo, a dispetto dei suoi sforzi, non funziona. Un verso dice “capovolgo la distanza che si azzera”. Basterebbe questo per condannare il paroliere al taglio dei pollici senza anestesia.

Neffa ripropone “Sogni e Nostalgia”. Mi è simpatico, con quella sua aria da artista di strada filosofo, e il pezzo e gradevole. Stasera la voce è più sicura. Per me merita la finale, ma si sa come sono le giurie del festival di Sanremo.

Pubblicità. Carolina Kostner su Suzuki in mezzo a monti innevati, presumo del Montana o forse del Wyoming: l’auto giusta per le nostre strade di città, secondo i pubblicitari. Ripensando a certi exploit della Kostner mi dico che se guida come pattina rischia di ruzzolare in un burrone alla prima curva.

E ora la proclamazione del vincitore fra le nuove proposte. Perbacco, ho azzeccato in pieno la classifica, a parte Mahmood che è quarto e non quinto, ma nessuno è perfetto.

Ogni volta che Virginia Raffaele torna in scena lo spettacolo guadagna dieci punti. La vera protagonista del festival è lei, poco ma sicuro. Introduce Valerio Scanu, che si ostina a credersi un cantante e intona “Finalmente piove” che racconta il solito amore finito e sarebbe brutta anche cantata da uno bravo. Ma Scanu è bellino, elegante e piace alle ragazzine: passerà il turno.

Carlo Conti annuncia la Ghenea manco fosse Elizabeth Taylor, ma lei più che le battute terribili che le hanno scritto non sa dire e le dice proprio male. Va be’, bella è bella e viene giù dalle scale in modo flessuoso e ammiccante.

Arrivano i Dear Jack, gli inutilmente giovani, con l’ennesima storia d’amore finito, “Mezzo respiro”, tremenda nel testo quanto insulsa nella musica: un verso dice “dietro un angolo del cuore”. È incredibile che si possano scrivere frasi così idiote senza rischiare l’arresto.

Pubblicità. finora gli sconti di Poltrone e sofà ce li hanno risparmiati, è già qualcosa. Però c’è la famiglia Valsoia, gongolante e felice che manco il Mulino Bianco. Peggio ancora, il rap dell’acqua Lete: già non la bevevo prima, adesso ho un motivo in più per non farlo. E poi c’è Penelope Cruz che assassina Tu si’ ‘na cosa grande, ma chi ci fa caso.

Garko insiste a fare lo spiritoso, poveretto. Ospitata di Elisa. Ostenta un tatuaggio sulla spalla sinistra che si allunga verso il braccio e la relativa tetta, o dove dovrebbe esserci la relativa tetta (Elisa ha le stesse curve dell’autostrada Milano-Venezia), e questo non mi predispone positivamente. Canta eseguendo con i suoi tipici vocalizzi, che virano sovente verso il falsetto, un medley di canzoni sue, che non conosco perché il suo non è il mio genere, ma non la critico. Aspetto che finisca prendendomi una pausa.

Invece quando torna Virginia Raffaele sono entusiasta.

Noemi è in bianco e i suoi capelli rossi, anzi, arancione, risaltano di più. Per quanto mi sia simpatica (fra l’altro è sua l’idea dei nastri arcobaleno per i diritti civili) e mi piaccia come canta, la sua “La borsa di una donna” continua a non convincermi.

Pubblicità. Gioielli Pandora, passata di pomodori, Unieuro; poi un’altra famiglia felice, che si abbotta di Danì Danone, seguìta da un’altra famiglia ancora che invece mangia prosciutto cotto. Il peggio sono i Baci Perugina con le frasi di Fedez. E pensare che un tempo c’erano quelle di Prévert. O tempora, o mores.

Altro ospite, tale J. Baldin, che solo a vederlo mi fa venire il nervoso. Propone un orribile mix di rap e musica ispanica. Lo accompagna un balletto dai movimenti meccanici, quelli che vanno tanto fra i giovani. Successo assicurato sul mercato, che come tutti sanno è in mano ai tredicenni. Io che tredicenne non sono provo fastidio.

E poi, come se non bastasse, ecco i finti sposini con le loro battutine scipite. Quasi quasi rimpiango Martufello… Va be’, non esageriamo.

Finalmente gli Stadio. Musica vera, mica la roba dell’ospite di prima. Mi godo “Un giorno mi dirai”, che quel ciarpame commerciale non lo vede nemmeno. Per me dovrebbero vincere loro. Bella melodia, bell’arrangiamento, bel testo.

Anche Arisa, che viene subito dopo, mi è piaciuta la prima sera e continua a piacermi anche stasera. “Guardando il cielo” è delicata e intensa e il testo, lo ripeto, è fuori dai soliti schemi; la melodia del ritornello ha perfino un certo profumo schubertiano. Merita di vincere anche questa.

Lorenzo Fragola è tanto bellino ed elegante, ma la sua “Infinite volte”, un’altra storia d’amore finita (ma che palle!), avrebbe potuto comparire in una qualunque delle precedenti 65 edizioni del festival, tanto è stereotipata nel contenuto e nella forma.

Pubblicità. Terribile Boldi in calzamaglia, ripugnante come nei suoi film. Hunzinger che ammicca coperta di gioielli attraverso la rete di rughe che comincia a segnarle la faccia. Due che pomiciano coperti di altri gioielli. Si vede che non siamo più in fascia protetta. Infatti c’è anche il cane sul divano. Al prossimo giro arriveranno senz’altro i preservativi.

Ariecco Morgan e i Bluvertigo con “Semplicemente”. Stavolta Morgan evita di ingaggiare la lotta furibonda con la giacca che lo ha sfinito ieri sera, ma il modo in cui si muove sul palco è imbarazzante. Si conferma comunque terribilmente sfiatato e stonato. Non ha importanza, perché tanto la canzone è brutta.

Mi risolleva lo spirito Virginia Raffaele che introduce Dolcenera, stasera tutta nera (le rime sono involontarie) con “Ora o mai più”. Il pezzo, al secondo ascolto, si conferma accattivante e gradevole anche se il testo non è particolarmente pregnante.

A concludere la serata il secondo rapper, Clementino, che dopo dieci secondi smetto di ascoltare togliendo l’audio al televisore. Ghenea, che lo introduce, ha un vestito che non si capisce se ci è entrata e ne vuole uscire o se ne è uscita e ci vuole rientrare. Mentre il rapper agita i suoi tatuaggi guardo con mesta solidarietà gli orchestrali, che dopo dieci anni di conservatorio debbono suonare ‘sta roba. Che s’ha dda fa’ per campa’…

Nell’attesa delle classifiche, ospitata di Alessandro Gassman, che con Rocco Papaleo gioca a far finta di cantare. Ma lo scopo dell’esercizio è la promozione del loro film.

Pubblicità. Spot delle caramelle Mentos col pelouche assassino, che le prime volte che l’ho visto l’ho trovato simpatico, ma dalla settantesima un po’ meno; poi di nuovo il rap Lete, ed ecco i preservativi. Volevo ben dire. Chissà se il cardinale Bagnasco dirà qualcosa al riguardo? Poi altri gioielli, un detersivo, Fastweb.

Altro ospite internazionale: Lost Frequencies, duo di ragazzotti composto da un DJ e un chitarrista cantante. Il pezzo, ripetitivo e monotono, imperversa da settimane su tutte le radio. C’è di peggio, ma non mi è chiaro a cosa serva il DJ dietro il ragazzotto che suona la chitarra e canta la sua filastrocca. E pensare che l’Italia è il Paese non dico di Vivaldi, Verdi e Rossini, ma almeno di Donaggio, Bindi e Conte. E invece andiamo dietro a ‘sta roba.

La classifica della serata vede tra i potenziali esclusi gli Zero Assoluto (il che è bello ed istruttivo), i Dear Jack (l’avevo previsto), Neffa (purtroppo) i Bluvertigo (ovviamente) e Irene Fornaciari, e mi dispiace, ma nel dopofestival lei la prende con filosofia. Tra i finalisti ci sono molte cose invereconde, come sempre, ma il festival è così che funziona.

Vado a letto dicendomi che il festival in fondo è gradevole, anche se non mi spiego a cosa servano tutte quelle canzoni tra una pubblicità e l’altra.

Giuseppe Riccardo Festa

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