Sanremo, la terza serata. Stasera sono buono. Beh, quasi.

Stasera  molto spettacolo e poca gara, a parte i sei campioni fra i quali scegliere i due da scartare,  le quattro giovani proposte fra le quali scegliere i due che andranno avanti e la gara fra le cover interpretate, come l’anno scorso, dai cosiddetti campioni già accreditati per la finale.

Si comincia, con la stessa fretta di ieri sera, con le nuove proposte: quattro ragazzi di belle speranze che visti tutti insieme fanno un po’ pensare alla famiglia Addams.

Inizia uno che si fa chiamare Maldestro, a occhio e croce un rapper, che canta Canzone per Federica. Genere depresso-sfigato, testo psicanalitico, strofa effettivamente un tantino rappeggiante, melodia non sgradevole nel ritornello.

Poi canta Tommaso Bini che travestito un po’ da Wonka, quello della fabbrica di cioccolato, esegue Cose che danno ansia. Fa una specie di siparietto teatrale, accompagnato da figuranti in costumi un po’ stile Village People ma ambosessi. Ha la voce molto acuta e ci tiene molto a recitare mentre canta. Però la canzone si lascia ascoltare.

Valeria Farinacci canta Insieme. Ha l’aria da brava ragazzina, con un rossetto molto rosso sul faccino adolescenziale. Purtroppo non si capisce molto di quello che canta. Ha lo stile impersonale e la voce standard – tendenzialmente sopranile – delle giovani cantanti che hanno l’aria da brava ragazzina. La canzone non sa né di me né di te, di quelle che vanno bene nelle sale d’attesa dei dentisti e per fare da sottofondo negli ascensori.

Infine si esibisce Lele, diciannovenne, il più giovane della manifestazione ma molto disinvolto e a suo agio, vestito anche con una certa eleganza. Canta Oramai. Pezzo del tipo che fa presa sui gggiovani, con momenti lenti e fasi fortemente ritmate. Il testo non ha importanza. Secondo me passa il turno; vediamo se ci azzecco.

Quando arrivano i verdetti, Bini si ritrova con una cosa in più che gli dà ansia perché  è eliminato, e Valeria Farinacci lo accompagna all’uscita. Verdetto tutto sommato condivisibile, anche se a me Bini non dispiaceva.

Maria De Filippi è sempre naturale, espressiva e disinvolta come una Barbie attempata e con un manico di scopa ben legato dietro la schiena. Scambia le solite battute più o meno insulse con Conti per introdurre un’esibizione del coro dell’Antoniano di Bologna, inviato in occasione dei 60 anni dello Zecchino d’Oro. Beh, a risentire quelle canzoncine e vedere il sorriso di quei faccini dolcemente e autenticamente innocenti – i bambini sono sempre gli stessi, fortunatamente, in ogni tempo e in ogni luogo – mi sono un po’ commosso. In fondo, anno più anno meno, ho la stessa età dello Zecchino d’oro, anche se io sembro molto più vecchio.

E iniziano le cover con Chiara, la commercialista, che ha scelto Diamante, di De Gregori e Zucchero. Scelta intelligente, perché una canzone così si candida alla vittoria della serata, e la sua interpretazione è tutt’altro che disprezzabile. Bello anche l’arrangiamento, con l’assolo di violino del maestro Pagani.

Ermal Meta canta Amara terra mia, di Modugno. Scelta impegnativa, legata certamente anche alle sue origini albanesi. Ha il mio voto, anche perché la terra amara e bella che ha ispirato la canzone è la Calabria. Bello il suo falsetto, e l’arrangiamento è davvero superbo.

Lodovica Comello canta invece Le mille bolle blu, del 1961. Per l’occasione ha scelto un look primi anni sessanta. È divertente, disinvolta e simpatica ma non ha l’intensità dei primi due pezzi, soprattutto il secondo.

C’è poi Al Bano, che ripropone la cover di una cover, Stand by me in versione Pregherò. Le sue O pugliesi sono chiuse col catenaccio a doppia mandata, come al solito, e poi si lascia andare a qualcuno dei suoi  gorgheggi, ma non riesce a distruggere del tutto la magia di una canzone stupenda.

Pausa con una novantaduenne, una levatrice che sembra cinquantenne e che ha aiutato a nascere oltre 7000 bambini. È simpaticamente e incredibilmente ancora in attività.

Fin qui una bellissima serata di musica, e saranno delusi i miei ventiquattro lettori dovendo rilevare che non sono cattivo come al solito. Ma il fatto è che le cover sono per definizione il meglio di quanto la musica leggera ha dato nei decenni precedenti, e dunque hanno già subìto la spietata selezione del tempo: stasera si va sul sicuro. E i cantanti, non stressati dall’ansia del concorso vero, cantano tutti come dovrebbero cantare sempre: con gioia e intensità e senza tensione. Cioè, quasi tutti.

Dopo la pubblicità, toccante esibizione di un’orchestra giovanile paraguayana, i cui strumenti sono fabbricati con oggetti recuperati nella spazzatura. Da musicista quale mi ritengo, non posso che ammirare questi ragazzini che da vecchi barattoli, scatole e tubi storti trasformati in violini, sassofoni, percussioni e violoncelli traggono le note di Libertango di Piazzolla. Poco importa che gli archi non siano perfettamente intonati: sono intonati loro, i loro sguardi e i loro sorrisi strappati alla miseria e restituiti alla vita, applauditi anche dall’orchestra di professionisti del festival. Stasera, per la seconda volta, il festival è riuscito a inumidirmi gli occhi.

Torna la gara delle cover con Fiorella Mannoia che ha scelto anche lei De Gregori con Sempre e per sempre, che interpreta con grandissima intensità. E poi, De Gregori è sempre De Gregori.

Arriva Crozza, che stavolta comincia  travestito da papa e poi torna a picchiare sulla politica; e per me è pipì time. Ritorno, e vedo Conti che si scompiscia dalle risate a una battuta tutto sommato insulsa del comico genovese. È fra le cose, questa, che mi fanno trovare Conti irritante, a volte.

Alessio Bernabei, quello con la voce da bambino, canta Edoardo Bennato: Un giorno credi. È fra gli interpreti che mi convincono di meno: tonalità troppo bassa nella prima parte e ottava troppo alta nel finale, con sgradevole effetto di strangolamento nella voce.

Paola Turci canta Un’emozione da poco, di Fossati, attenuando un po’ la rabbia di Anna Oxa, l’interprete originale, ma con grande grinta. Brava, anche lei.

Poi c’è la pubblicità e a seguire, come usa dire, l’ospitata di Mika, introdotto da battute inconsulte di Conti delle quali ride solo lui. Il dialogo che il cantante e fantasista finge con l’orchestra mi fa dedicare un pensiero affettuoso a quei musicisti, tutti usciti dai conservatori e tutti bravissimi e talentuosi (o non sarebbero là perché la selezione è spietata) costretti a suonare, a volte, cose che dal bassopiano dell’inverecondia precipitano spesso negli abissi dell’indecenza. Mika conclude il suo intervento con un omaggio a George Michael. Suda come un cavallo: si vede che si impegna a fondo. Può non piacere, ma di sicuro è un grande professionista.

Dopo un siparietto con una vitalissima centocinquenne, le cover riprendono con Gigi d’Alessio, che ha scelto L’immensità di Don Backi, che personalmente ho sempre preferito nella versione di Johnny Dorelli. È la prima cover che decisamente non mi piace. Voi direte che si tratta di pregiudizio contro D’Alessio; ma piuttosto, al di là di un arrangiamento che ha completamente snaturato la struttura del pezzo, si tratta della constatazione di come D’Alessio sia capace di liquefare e trasformare in melassa anche una canzone piena di carattere e per certi versi spigolosa come questa.

Francesco Gabbani, che come i miei ventiquattro lettori sanno mi è molto simpatico,  ha scelto Adriano Celentano: Susanna. Logico, è nei suoi precordi. Non credo che l’abbia scelta per vincere la serata, ma per divertirsi. E si diverte, e diverte.

Marco Masini ha optato per il famoso Signor Tenente di Giorgio Faletti, un monologo più che una canzone, ma lui la carica di pathos modulando con la consueta rabbia anche un abbozzo di melodia in alcuni passaggi. La rabbia ci sta tutta, visto che il pezzo racconta di carabinieri massacrati, mal pagati, disprezzati e comunque pur sempre ligi al dovere.

Michele Zarrillo canta Se tu non torni, di Miguel Bosè. È molto più convincente in questa cover che nel suo pezzo in concorso, come d’altra parte molti suoi colleghi.

Elodie toppa completamente la scelta con Cocciante: Quando finisce un amore. È il Cocciante più cupo, quello dei ruggiti rabbiosi. Il pezzo non mi sembra adatto alla voce di altri che la sua.

Smetto di prendere nota delle comparsate di ospiti, o se no gli zebedei dei miei lettori maschi precipiteranno al suolo e quelli delle mie lettrici rischieranno di formarsi, con grave comune imbarazzo. Quanto a me, trovo che questa serata sia sicuramente la più divertente della rassegna, ma è decisamente troppo lunga.

Samuel, quello dei Subsonica, canta Ho difeso il mio amore, cover di Nights in white satin dei Moody Blues, a suo tempo cantata dai Nomadi. E la strazia, alterandone anche la melodia nel momento clou. È peggio addirittura di D’Alessio, cosa che avrei ritenuto impossibile.

Il gigante Sergio Sylvestre si rivolge a Nino Ferrer, La pelle nera. Bella idea. Peccato che abbia accanto due rapper, del tutto superflui e irritanti come tutti i rapper che si rispettino e anche quelli che non si rispettano. Il risultato è confusionario e dispersivo.

Fabrizio Moro, quello degli occhi a mezz’asta, ha scelto anche lui De Gregori: La leva calcistica della classe ’68. Bellissimo pezzo ed eccellente interpretazione, aiutata anche dalle immagini proiettate sullo sfondo.

Ultima cover, Michele Bravi che esegue Battiato, e per la precisione La stagione dell’amore. La voce è aspra e immatura, non adatta al pezzo.

Ora bisogna vedere quali dei sei partecipanti in sospeso sono i due che saranno esclusi definitivamente; e io posso ritrovare la mia naturale cattiveria.

Comincia Ron, ed eseguendo L’Ottava meraviglia è più convincente stasera che al primo ascolto.

Raige e Giulia Luzi, con Togliamoci la voglia, giocano goffamente la carta del nude look (lei lascia cadere a terra, all’inizio del pezzo, una giacca che aveva posato sulle spalle), ma le trasparenze sulle tette della fanciulla non migliorano né la qualità della loro dizione né quella del pezzo e degli accenti errabondi, con l’aggravante degli inserti rap.

Bianca Atzei ripresenta Ora esisti solo tu e i suoi tatuaggi; a dispetto dell’impegno che profonde nell’interpretazione, il pezzo resta scontato nella musica e banale nel testo.

Il rapper Clementino, coi suoi Ragazzi fuori, me lo risparmio, tanto i miei ventiquattro lettori sanno già che lo boccio.

Giusi Ferreri ripropone Fa talmente male. In lungo nero è oggettivamente bella da vedere, ma la canzone resta disperatamente brutta e la sua voce – sembra una donna che vuole fare il vocione da tenore – gonfia e sgradevole.

E infine ecco Nesli e Alice Paba, con Do retta a te. Stasera sono più intonati ma la canzone, piena di rime con tu, più e blu, non è migliore per questo.

Intanto viene assegnato il premio per le cover: terzo si classifica Masini col Tenente di Faletti; seconda Turci, con Un’emozione da poco, e vincitore è Ermal Meta con Amara terra mia: mi fa davvero piacere, non ci speravo. Bell’omaggio a Modugno e anche alla Calabria che ha ispirato il testo. Mi spiace per Diamante, che secondo me meritava di classificarsi fra i primi, e anche per Sempre e per sempre; ma evidentemente ai giornalisti ed ai votanti da casa De Gregori non piace quanto a me. Noto con malinconia, en passant, che nessuno ha pensato a Fabrizio De Andrè.

Resta solo da sapere quali sono le due canzoni dei “campioni” che non passano alla finale. È l’una di notte, speriamo che si sbrighino. Merita una menzione la partecipazione come ospite di LP, scricciolo nel fisico ma cantante piena di grinta, di grande successo e oggettivamente ricca di un grande talento.

E gli esclusi sono le due coppie: Nesli e Alice Paba e Raige e Luzi: dunque il rapper sopravvissuto è il peggiore, perché il politically correct ha salvato Clementino: i suoi Ragazzi fuori sono rimasti dentro.

Vado finalmente a letto, e qualche scossetta di terremoto mi ricorda che, spente le luci sul palco dell’Ariston, la realtà è sempre là, in agguato, e che purtroppo non è possibile votare per escluderla dal festival delle nostre esistenze.

Scusatemi: a volte divento lirico, ma fortunatamente non succede poi tanto spesso.

Giuseppe Riccardo Festa

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