Fratelli d’Italia, l’Italia s’è destra

Non ho l’ombra di un problema ad ammetterlo: sto rosicando, e rosicando alla grande, anche se il disastro era ampiamente previsto. Però un po’ mi consolano alcuni aspetti, dell’esito catastrofico di questa tornata elettorale, che magari indurranno i vincitori a ridacchiare ma tant’è: piuttosto che niente, è meglio piuttosto.

Tanto per cominciare, la vittoria ha consegnato alla destra meno dei due terzi del Parlamento giulivamente mutilato per volontà dei grillini ed eletto con una legge strampalata voluta da Renzi: questo vuol dire che, dopo la pur sicura approvazione parlamentare, le riforme della Costituzione in stile “Qui comando io”, vagheggiate da Meloni, dovranno comunque passare sotto le forche caudine del referendum confermativo, che non necessariamente porterà alla loro approvazione: quel referendum non si potrà tenere prima che sia passato almeno un anno e mezzo dall’avvio dei lavori parlamentari e durante quest’anno e mezzo il governo di Meloni dovrà subire l’esame dei fatti, un esame che ha sempre eroso il consenso di chi governa (si veda quello che è successo a Renzi), e dunque l’esito del referendum è tutt’altro che scontato.

Un altro motivo di (magra) consolazione è il bagno di sangue che nel suo partito attende al varco Salvini, che in tre anni si è mangiato due terzi del suo elettorato potenziale: dopo aver sfiorato il 30% dei consensi, almeno stando ai sondaggi, oggi è ridotto a un misero 9 virgola qualcosa e i suoi camerati, giù al Nord, stanno già affilando i coltelli.

Inoltre, le velleità isolazioniste e nazionaliste in stile Orban di Meloni si scontreranno con il conclamato europeismo dei belusconiani, mentre il filo putinismo dei berlusconiani e dei salviniani si scontrerà con l’atlantismo della Meloni. Insomma, se è vero come è vero che la sinistra è un arcipelago di isolotti (oggi semisommersi dalla marea), non si può dire che la destra sia un massiccio e compatto continente.

E poi, scusate se è poco, c’è anche la soddisfazione di vedere che personaggi come Sgarbi, Pillon, Paragone, Adinolfi, Di Maio e Cunial sono rimasti fuori dal Parlamento. Anche lo stalinista Marco Rizzo (quello che ha stappato lo champagne per la morte di Gorbaciov) resta a casa, come pure il nazista Di Stefano.

Adesso non resta che stare a vedere cosa accadrà. Meloni ha detto all’Europa che è finita la pacchia e l’Europa, a stretto giro di posta, le ha risposto a brutto muso che la pacchia, se finirà, sarà per l’Italia (vedi Ungheria di Orban e PNRR segato). Meloni potrà dunque continuare sulla sua linea, rinunciando ai fondi europei e finanziandosi con il debito pubblico (da un po’ lo chiamano “scostamento di bilancio”, ma sempre debito pubblico è), provocando un’impennata dei tassi e dello spread come già accadde con l’ultimo governo Berlusconi d’infausta memoria, e perderà consenso nel Paese. Oppure, magari proclamando il contrario, abbasserà la cresta e si atterrà alle condizioni (rigorose ma ragionevoli) cui bisogna sottostare per ottenere i fondi europei, che alla nostra asfittica economia servono come l’ossigeno a un moribondo, e perderà lo stesso consenso nel suo elettorato.

Facile profezia, la mia, anche se è altrettanto facile rispondermi che è piuttosto una speranza. Tuttavia, anche senza rievocare Mussolini, è già successo a Berlusconi, poi a Renzi, poi a Salvini e a Grillo e ai suoi epigoni: prima consensi stellari, poi dalle stelle alle stalle. La storia, in Italia, insegna che la gloria dei leader politici è breve e la loro parabola scende sempre, inesorabilmente, fino a sbatterli a terra con le ossa rotte.

Il potere, checché ne dicesse Andreotti, logora chi ce l’ha.

Giuseppe Riccardo Festa

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