ANALFABETISMO, GLI ITALIANI NON SANNO LEGGERE

Quando parliamo di cultura e di consumi culturali, ma anche quando parliamo di politica, facciamo finta di non ricordarci un dato che ogni tanto si conquista qualche trafiletto sui giornali: la stragrande maggioranza degli italiani o di fatto non sa leggere oppure legge ma non riesce a comprendere il significato dei suoni che riproduce. I giornali, i libri, il teatro, tutto ciò che ha a che fare con la conoscenza scritta sono appannaggio di un 20% della popolazione. In tutto il mondo industrializzato solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, riesce a fare peggio di noi. Scrive Tullio DE MAURO che da anni si occupa delle ricerche sull’analfabetismo funzionale, che “soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. I dati sul resto della popolazione fanno paura: il 5% di chi ha tra i 14 ed i 65 anni non sa distinguere una lettera da un’altra o una cifra da un’altra; il 38% riesce a leggere con difficoltà, quando si tratta di singole scritte o cifre. Il 33% è in una condizione leggermente migliore: “un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile”, scrive sempre De Mauro. Queste 3 categorie di persone sono i tre quarti della popolazione italiana. È una statistica che chi fa certa televisione ha probabilmente in mente ma chi fa politica, anche a sinistra, forse preferisce ignorare. Ed è una statistica che ha le sue conseguenze, oltre che sulla nostra democrazia, anche sulla produzione di cultura e sapere: in Italia manca, per esempio, un solido mercato editoriale. Si leggono meno libri, si va meno a teatro, si visitano meno musei che in altri paesi sviluppati. I giornali a volte tentano, inutilmente a guardare i dati sulle copie vendute per mille abitanti, di rincorrere la televisione quanto a temi trattati e modo di presentarli. Forse una delle radici di tanta debolezza della nostra industria culturale, nonostante la presenza di tantissimi qualificati e appassionati operatori, va ricercata nelle statistiche fornite da DE MAURO. Eppure la sinistra italiana avrebbe gli strumenti concettuali per affrontare il problema. Una volta si prendeva sul serio l’affermazione gramsciana per cui il ruolo dell’intellettuale doveva essere quello di trasformare l’idea di pochi nel sentire comune dei molti. Ecco, uno dei compiti della cultura e del sapere è sempre stato questo: prendere le persone sul serio, anche quando non sanno leggere o non leggono i giornali e i libri che leggiamo noi. Non pensare che, siccome non passano i test di DE MAURO, siano destinati a vedere pessima televisione e a vivere come gli abitanti della caverna di Platone. Questo prendere sul serio dovrebbe essere un obbligo, soprattutto di chi si dice di sinistra. Non è una battaglia disperata ma è una battaglia disperatamente necessaria, lo abbiamo già scritto. C’è già una generazione di intellettuali e di artisti che racconta la nuova Italia. La battaglia per un nuovo senso comune si fa con le fiabe, con le trasmissioni televisive, con gli spettacoli teatrali, con le fiction, con i concerti e con ogni strumento di espressione e di comunicazione artistica. Non di sola saggistica può vivere una controffensiva culturale come quella che dobbiamo condurre. La politica deve fare la sua parte. Deve credere nel fatto che la cultura non sia solo difesa del patrimonio delle opere, sostegno alla produzione culturale e alla sua diffusione, ma sia soprattutto un veicolo per la costruzione di identità e di legami dentro le nostre comunità. E tuttavia, avere in mente le statistiche sull’analfabetismo funzionale non serve solo a chi produce cultura. Bisogna tenerlo in mente quando si parla di scuola, e lo si fa troppo poco sia nel Paese che all’interno della sinistra. Eppure siamo di fronte alla possibile fine del ruolo culturale delle istituzioni formative di questo Paese. La scuola è stata già distrutta, a picconate, con la precarizzazione del corpo docente, il disinvestimento, l’istituzione del maestro unico e la forte limitazione del tempo pieno – una misura che nonostante la propaganda del governo va avanti a vele spiegate, come sa chi ha dei figli iscritti a scuola. Sul fallimento dell’attuale sistema educativo parlano abbastanza chiaro i dati della Commissione Europea. Non deve stupire se il tasso di abbandoni è il doppio (il 19,7%) di quello che dovrebbe essere fisiologicamente oppure se il 50,9% dei ragazzi e delle ragazze tra i 15 ed i 18 anni è al di fuori, come dicono gli esperti, del “letteratismo”: cioè magari legge, ma non capisce quello che legge e quindi non ha gli strumenti fondamentali per sopravvivere nella società della conoscenza. È difficile pensare che l’aumento del numero di alunni per classe (fino a 30-33 alle superiori) voluto dal Ministero, aiuterà a risolvere questo problema. Certo, ci portiamo dietro problemi atavici: basti pensare che ancora negli anni ’50, come ricorda DE MAURO, la metà della popolazione era completamente analfabeta. E tuttavia i dati sui ragazzi di oggi – e l’esperienza concreta di molti insegnanti – ci dicono che si continuano a fabbricare analfabeti funzionali, magari con titolo di studio ma incapaci di comprendere quello che leggono. L’università italiana ha da sempre dei problemi di fondo che ne fanno un’istituzione auto-referenziale e classista. E tuttavia, può ancora peggiorare e ci si sta lavorando alacremente: il combinato disposto della riforma Gelmini e dei tagli finanziari la ridurrà probabilmente, nella migliore delle ipotesi, in un luogo in cui si trasmette cultura, non la si produce – una concezione così profonda da essere finita anche in un testo legislativo. È anche da lì che bisogna ripartire per cambiare la nostra società. Sulla scuola e l’università si gioca un pezzo del modello di sviluppo italiano: possiamo continuare ad essere l’economia molecolare a basso tasso di specializzazione produttiva oppure possiamo essere un’economia della qualità e della sostenibilità. Parte (quasi) tutto dai banchi di scuola e dalle aule delle università. La questione dell’analfabetismo funzionale (o di ritorno, quando riguarda adulti che perdono le proprie competenze) è infine una questione di democrazia. Una delle prime battaglie del movimento operaio fu proprio quella per l’alfabetizzazione di massa: chi non sapeva leggere e scrivere non poteva votare e non era una persona libera. Oggi l’analfabeta funzionale può pur sempre votare o partecipare ai concorsi pubblici e tuttavia è lecito dubitare della sua effettiva libertà. Vale la pena di pensarci su e proprio per questo Italia2013 sta organizzando la sua seconda iniziativa pubblica sul tema della cultura e dei saperi che si svolgerà giovedì 17 giugno alle 19 (dove, lo saprete presto).

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