9 MAGGIO 1978 : L’OMICIDIO MORO E LA “PRESUNTA“ RAGION DI STATO.

di Patrizia Funaro

Era il 16 marzo 1978 , giorno in cui il nuovo governo a guida Andreotti stava per essere presentato in parlamento per ottenere la fiducia, quando l’auto che trasportava Aldo Moro veniva bloccata in via Fani a Roma da un nucleo armato delle Brigate Rosse. Cinque le vittime dei terroristi: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, uomini, la cui unica colpa era quella di proteggere l’obiettivo illustre dei brigatisti.
Iniziano i 55 giorni più bui e misteriosi della storia della Repubblica Italiana.
Verità ufficiali, verità nascoste, ipotesi di complotto, omissioni, depistaggi; nel “Caso Moro” c’è tutto questo e molto altro.
Pagine e pagine di inchieste, processi e commissioni parlamentari che hanno lasciato, nonostante siano trascorsi 41 anni, tanti interrogativi e tante ombre sul sequestro e la morte dell’Onorevole Moro.
Una domanda su tutte: ad uccidere Moro furono davvero solo le Brigate rosse?
Ebbene, la lettura di tanti atti, articoli, inchieste e libri sul caso lascia intravedere una convergenza di interessi nazionali ed internazionali sulla morte dello statista democristiano.
Si chiude infatti dopo il 9 maggio 1978 la stagione del “compromesso storico” di cui Moro fu il regista, un progetto politico mai accettato dai partner internazionali dell’Italia ed in particolare dagli Stati Uniti che in quei 55 giorni furono “particolarmente attenti” alla gestione caso.
Che la vicenda umana e politica non fosse solo un fatto interno era chiaro evidentemente anche al presidente della Dc che in una delle sue drammatiche 86 lettere scrive: ”Vi è forse , nel tentativo di tener duro contro di me, un’indicazione americana e tedesca?”
Lo Stato non può riconoscere ai brigatisti il rango di interlocutori, non può e non deve avviare un dialogo con gli assassini di tante vittime innocenti, per salvare un uomo politico.
Questa la strategia attuata e la risposta agli appelli del presidente, racchiusi nelle lettere indirizzate alla famiglia, agli amici di partito, al Ministro dell’interno Cossiga, in cui si affermano le gravi responsabilità politiche e morali del governo e della democrazia cristiana.
La linea della fermezza seguita dal governo italiano, astrattamente condivisibile per alcuni aspetti, lascia molto perplessi soprattutto per il rigore attuato e la mancata volontà di predisporre e attuare un piano B.
C’erano altre strade per salvare la vita di Moro?
Si poteva arrivare all’obiettivo senza cedere ai terroristi?
Numerosi documenti e dichiarazioni rese durante i processi e le commissioni parlamentari ci raccontano di un immobilismo totale in tal senso.
Elementi ed indizi trascurati, una serie di occasioni mancate, evidentemente troppe da attribuire ad una semplice incapacità investigativa o all’inesperienza.
Ma soprattutto una gestione quasi esclusivamente politica del sequestro Moro che vede la magistratura in posizione marginale. Vi sono una serie di indicazioni ed elementi importanti che vengono a conoscenza dei magistrati solo dopo la morte di Moro e che, forse, il condizionale è d’obbligo, avrebbero potuto portare a dei risultati, se analizzati e vagliati dai magistrati deputati a seguire il caso.
Rimane, ancora oggi dopo 41 anni, estremamente complesso districarsi in un groviglio di atti, notizie false, interferenze esterne, presenze invisibili, che hanno costellato i giorni del sequestro Moro e che hanno cambiato il corso della storia della Repubblica Italiana.
L’impressione, rispetto alla storia di quei terribili giorni è di un volersi trincerare dietro una “presunta ragion di stato” per salvaguardare interessi diversi.
Scrive Moro, nella lettera indirizzata a Riccardo Misasi: ”Due parole per dirti che mi attendo una efficace battaglia a difesa della vita, a difesa dei diritti umani contro una gretta ragion di stato. Tu sai che gli argomenti del rigore, in certe situazioni politiche, non servono a nulla.”
La straordinaria lucidità dell’uomo, del politico che, nonostante viva una situazione drammatica, abbia ben chiaro cosa stia avvenendo fuori dalla “prigione del popolo”, viene messa in discussione dagli uomini del suo stesso partito.
Comincia, dopo l’arrivo e la pubblicazione delle missive di Moro, un’attività di delegittimazione dello stesso.
Si scrive che “Moro non è più Moro”, che non si ravvisa, soprattutto in alcune lettere, la vera personalità del presidente, che si tratta ormai di “un uomo in balia dei terroristi”.
Inizia cosi la volontà di abbandonare il presidente della Dc, il politico, lo statista, l’uomo.
Uno degli uomini più rappresentativi del nostro Paese, mente brillante, formazione culturale e politica di altissimo livello, viene lasciato al suo atroce destino.
Viene cancellata con un colpo di spugna una vita dedicata allo Stato, alle sue leggi alla sua trasformazione ed evoluzione .
Il pensiero corre ad un altro grande uomo che in un colloquio con una sua amica giornalista disse : “scrivi che si muore quando si è lasciati soli”.
Era Giovanni Falcone, qualche settimana prima della strage di Capaci.
Siamo nel 1992, molti anni dopo quel 1978, ma il copione è lo stesso.
Ci sono sempre ragioni di stato vere o presunte, interessi superiori, “attori e poteri occulti“ che scrivono sentenze di condanna senza appello e che predispongono i giusti scenari per eseguirle.
Non so se si arriverà mai ad una verità certa sul caso Moro, ma ritengo necessario e doveroso rileggere la storia di quel periodo, carpirne le contraddizioni e l’ipocrisia di una politica molto attenta alla salvaguardia dei propri fragili equilibri, meno sensibile alla voce del suo popolo e dei suoi uomini migliori.
La storia ci consegna la memoria di un grande uomo di stato, artefice di numerosi progetti ed iniziative legislative che hanno reso il nostro Paese più moderno, un visionario che ha anticipato i tempi, che ha saputo volgere lo sguardo al di la dei confini del momento storico in cui è vissuto, per consegnarci un Paese che fosse lo specchio reale di quella Costituzione in cui sono scolpiti principi di libertà e uguaglianza.
Con la speranza che la classe politica di domani sappia riconoscere, esaltare e tutelare le menti brillanti di cui questo Paese è ricco e che formi e selezioni una classe dirigente consapevole, lungimirante e onesta, capace di traghettare questa Italia in una nuova fase, in una democrazia vera, fatta di donne e uomini Liberi di decidere il proprio destino.
“Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà.”
Aldo Moro

Patrizia Funaro

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