UMBERTO ECO, 5 gennaio 1932 – 19 febbraio 2016

Aveva ottantaquattro anni; ma era una di quelle presenze che si finisce per considerare permanenti, un elemento imprescindibile – che lo si apprezzasse o no – del nostro panorama culturale: come Eugenio Scalfari, Andrea Camilleri, Claudio Magris. E poi, a sentirlo parlare, ti faceva scordare la sua età, traboccante com’era di lucidità, intelligenza, progetti e idee.

Io l’ho amato fin da quando ho divorato il suo primo romanzo, il gigantesco “Il nome della rosa”, ed ho poi letto tutto quello che ha scritto godendo a volte di più, a volte di meno e a volte anche – non ho difficoltà ad ammetterlo – faticando a seguire il filo dei suoi ragionamenti, come in “Kant e l’ornitorinco”; ma senza mai perdere uno solo dei suoi scritti.

Al di là della cultura inarrivabile, dell’intelligenza acutissima, della bonomia e dell’ironia che lo caratterizzavano, l’aspetto che più mi ha affascinato, sempre, della sua personalità, è stato la sua indipendenza di pensiero. Umberto Eco ha sempre guardato con sospetto coloro che amano intrupparsi, non importa se in un partito politico, una fede religiosa o qualunque altra forma di cessione all’ammasso del proprio cervello, stigmatizzando un vizio invece molto diffuso tra i suoi e nostri connazionali

Mi permettano i miei ventiquattro lettori di rendergli omaggio e di farlo citando non uno dei suoi innumerevoli e dottissimi saggi o uno dei suoi romanzi ma, da una delle sue opere più lievi, gradevoli e cariche di ironia e di umorismo – il primo Diario minimo – il suo Elogio di Franti: proprio lui, Franti, il cattivo, l’unico cattivo del libro Cuore.

Eleggendolo a campione della sua insofferenza nei confronti di chi ama irreggimentarsi, Umberto Eco capovolge, in quel breve e meraviglioso saggio, il senso stesso del testo deamicisiano: nell’aula che Enrico, dopo la lettura de “La piccola vedetta lombarda”, descrive colma di occhi lucidi, di silenzi sospirosi e di lacrime gocciolanti, uno solo, lui, il Franti, non aveva ceduto alla commozione indotta in tutti gli altri dalla vicenda del piccolo eroico messaggero del patriottico reparto sabaudo, che alla patria ha sacrificato una gamba: l’infame rideva.

Eco vede in Franti l’unico capace di uscire dagli schemi della retorica patriottarda e dello stucchevole eroismo perbenista e piccolo borghese in cui Enrico invece sguazza per ragionare in autonomia, guardare tutte quelle facce lacrimose e ridere. Franti (cito) “è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l’autore”.

Ridere è il modo più dissacrante e liberatorio di affermare la propria libertà. Da quel maestro che era, Umberto Eco ha svelato che De Amicis, senza volerlo, a Franti, lungi dal coprirlo di infamia, aveva reso omaggio.

Allo stesso modo, Eco ha rifiutato di cedere a un’altra forma di omologazione, quella che – con la fusione tra Mondadori e Rizzoli – rischia di fare dell’intero e già asfittico mondo dell’editoria italiana un unico, piatto, spento e desolato centro di promozione di opere prive di autonomia e originalità; e ultraottantenne si è gettato nell’avventura di partecipare alla nascita di una Casa editrice autonoma e indipendente.

Il mondo è più povero, ora che tace anche questa voce, e soprattutto è più povera l’Italia che di voci come quella di Umberto Eco ne ha poche. Poche, e destinate ad essere sempre maledettamente, sciaguratamente e disperatamente di meno.

Addio, professore. Ci mancherà. Mi mancherà.

 

Giuseppe Riccardo Festa

 

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