
■Antonio Loiacono
C’è un’Italia che ogni giorno si svuota un po’ di più. Non fa rumore, non occupa le prime pagine, non agita talk show né produce breaking news. Ma resiste in un silenzio che diventa assordante: è l’Italia dei piccoli comuni, delle aree interne, dei borghi dimenticati. Un’Italia che arretra mentre il tempo avanza. E che rischia di essere cancellata dalle mappe demografiche, economiche e sociali del Paese.
La Calabria orientale, in particolare l’area montana e collinare della Sila Greca, sta vivendo un drammatico declino demografico. Borghi storici, un tempo cuore pulsante della vita rurale e culturale, si stanno lentamente svuotando. Cariati, Campana, Bocchigliero, Scala Coeli. Nomi che evocano storia, cultura e radici profonde. Eppure oggi, questi piccoli comuni incastonati nella Sila Greca calabrese, stanno diventando luoghi del silenzio. Case chiuse, strade vuote, scuole che abbassano le serrande per sempre. È il volto più duro dello spopolamento, un fenomeno che avanza giorno dopo giorno, senza clamore ma inesorabile.
Secondo l’ISTAT, solo nel 2023 i comuni interni della fascia montana e collinare del Basso Ionio hanno perso in media il 2,5% della popolazione. Alcuni centri toccano picchi del 4%. Un’emorragia lenta, che dura da decenni: dal 2001 al 2021, Campana ha visto sparire oltre il 35% dei suoi abitanti. Bocchigliero, da oltre 3.000 residenti, oggi è scesa sotto quota 900.
Non si tratta solo dell’invecchiamento della popolazione e della scomparsa degli anziani senza ricambio generazionale. La fuga dei giovani, costretti a emigrare in cerca di lavoro, istruzione e servizi, ha accelerato il processo. Il tasso di natalità, tra i più bassi d’Italia, si attesta a 4,1 nati ogni 1.000 abitanti, contro una media nazionale già allarmante di 6,7.
Ma il problema non è soltanto demografico. L’isolamento infrastrutturale, l’assenza di servizi essenziali, la chiusura progressiva di scuole, banche e uffici postali, rendono sempre più difficile vivere nei borghi interni. In molte aree della Sila Greca, l’assistenza sanitaria si riduce a poche ore settimanali, mentre gli ospedali si trovano spesso a oltre 40 chilometri di distanza.
Anche l’agricoltura, un tempo motore economico, oggi soffre per la frammentazione fondiaria, l’invecchiamento degli operatori e la concorrenza internazionale. La mancanza di investimenti strutturali e l’uso inefficiente dei fondi europei hanno ulteriormente compromesso la tenuta del settore.
Lo spopolamento ha ricadute a catena: cala la domanda di beni e servizi, chiudono negozi e botteghe, si disperde il patrimonio culturale immateriale fatto di dialetti, riti religiosi e saperi artigianali. L’abbandono del territorio aumenta inoltre il rischio idrogeologico, con frane e incendi sempre più frequenti per la mancata manutenzione di boschi e campagne.
I dati parlano chiaro. In Calabria, ad esempio, Scala Coeli (con la frazione San Morello), ha visto la propria popolazione dimezzarsi in poco più di vent’anni: dai 1.400 abitanti del 2001 a poco più di 700 residenti oggi! Non si tratta di un’eccezione, ma di una triste norma che accomuna centinaia di paesi italiani. E ogni volta che un borgo si svuota, non perdiamo solo numeri, ma un pezzo di identità collettiva.
A Longobucco, cinque botteghe artigiane hanno chiuso in dieci anni, mettendo a rischio la secolare tradizione della tessitura.
Alcuni tentativi di inversione della tendenza esistono: l’iniziativa regionale “Borghi Smart”, per esempio, prevede incentivi fiscali e bandi per il ripopolamento. Tuttavia, senza una visione organica e a lungo termine (fondata su digitalizzazione, infrastrutture moderne e opportunità di lavoro), questi interventi rischiano di restare misure-tampone.
A Campana, un gruppo di giovani imprenditori ha avviato un progetto di ospitalità diffusa e agricoltura biologica, attirando turismo sostenibile e nuovi residenti.
È la prova che, se sostenute, le comunità locali possono reagire!
Lo spopolamento dei comuni del Basso Ionio e della Sila Greca non è un destino inevitabile. È il risultato diretto di una somma di scelte — o meglio, di non-scelte — politiche, economiche e culturali che negli ultimi decenni hanno marginalizzato interi territori. È l’effetto collaterale di una visione del progresso sbilanciata sulle metropoli, sui poli industriali, sui centri dove si concentra tutto: lavoro, servizi, infrastrutture, cultura. Il resto — l’entroterra, la montagna, le comunità rurali — è rimasto ai margini, senza una strategia, senza prospettive.
Ogni chiusura di una scuola o di un ambulatorio è una frattura nel tessuto comunitario. Ogni giovane che parte è una speranza che si spegne. E ogni edificio che resta vuoto è un pezzo di identità che si sbriciola. Lo spopolamento è questo: non solo un fenomeno demografico, ma una desertificazione sociale, culturale e civile.
Servono politiche fiscali mirate, per incentivare l’insediamento di imprese e giovani famiglie. Servono investimenti in formazione professionale, legati ai mestieri del futuro e alle vocazioni specifiche dei territori. Servono infrastrutture moderne, digitali e fisiche, che riducano l’isolamento e aumentino la qualità della vita. E serve soprattutto una cabina di regia seria e trasparente, che coordini gli interventi e monitori gli effetti.
Ma c’è un’esigenza ancora più urgente: una nuova classe dirigente, visionaria e responsabile, capace di osare, di coinvolgere le comunità locali, di restituire dignità e futuro ai territori dimenticati.
Il recupero delle aree interne non è solo una questione di numeri o servizi. È una battaglia per salvare l’anima di questi territori, fatti di legami umani, tradizioni, resilienza e bellezza. Salvare i piccoli comuni non è nostalgia. È un atto politico. E forse anche un dovere morale.
Perché un Paese che abbandona i suoi borghi è un Paese che ha smesso di credere in sé stesso.
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