Sanremo, prima serata: Morandi e Ranieri due vecchi leoni; poi, a parte Fiorello, tutto il resto è noia.

Arrivo su RAI1 un pochino in ritardo, perché cenando mi sono trattenuto su RAI3 per seguire il programma intelligente e ironico di Geppi Cucciari: così mi perdo le prime infornate pubblicitarie e parte del pistolotto iniziale di Amadeus, che meritoriamente entra subito nel vivo e introduce il primo cantante in gara.

Si tratta di Achille Lauro che si presenta scalzo e a petto nudo con l’evidente intenzione di dare coi suoi tatuaggi un nuovo significato al termine “tappeto musicale”, in concorrenza col comunque imbattibile Fedez, che ha la pelle più arzigogolata di un tappeto persiano. Canta “Domenica” accompagnato da sei coriste fortunatamente vestite, loro, dato che Lauro è ossuto ma nel loro caso non si può parlare di silfidi. Le loro movenze ricordano gli ippopotami del film “fantasia” di Disney. Al solito, della canzone non si capisce una parola ma tanto fa lo stesso. Solita esibizione di ego da parte di Lauro, che se fosse bravo per quanto è presuntuoso sarebbe meglio di Caruso e Pavarotti messi insieme. Purtroppo è solo presuntuoso, al punto di terminare l’esibizione con un battesimo, non è chiaro se a sé stesso o al palco dell’Ariston. Voto al pezzo comunque 5, in grazia del ritmo piacevole.

La partner di Amadeus stasera è Ornella Muti che, quanto a carrozzeria, se fossi un porco maschilista direi che nonostante l’età è ancora navigabile, ma le guardo il viso e rilevo che ha addosso più plastica che epidermide; poi sorride e noto che si è fatta prestare la bocca dalla moglie di Francesco Totti.

La Muti introduce il secondo cantante in gara che è un tale Yuman, una specie di comodino troppo cresciuto. Canta “Ora è qui”. Oddio, canta… ha vinto Sanremo giovani, e non posso non chiedermi: se lui è il migliore chissà com’erano quelli che hanno perso? Anche lui quanto ad aspetto, a parte le proporzioni da parallelepipedo, è inquietante: è tutto nero, con scarponi neri e larghissimi pantaloni neri. Il pezzo si spegne inaspettatamente e spegnersi è il solo momento gradevole che offre. 4 è già un voto generoso.

Noemi, la donna arancione, si conferma arancione nei capelli ma molto rosa nell’abito generoso di trasparenze e scollature. Testo e musica di Mahmud, (creatore di suoni che per motivi misteriosi si continua a ritenere siano musica), canta “Ti amo non lo so dire”. Musica di Mahmud significa musica inesistente, e infatti parte la solita melopea arabeggiante che di melodia non ha nemmeno l’idea. Noemi, capelli a parte, è volgarotta anche nella voce, stasera per giunta molto rauca; in più si allontana anche dal microfono, e sono i momenti migliori dell’esibizione, perché non si sente quello che dice, comunque irrilevante. Canzone inqualificabile; Voto 5, per rendere merito alle trasparenze e alle scollature dell’abito.

Quarto Gianni Morandi che dopo averlo pure diretto, il festival farebbe meglio, secondo me, a evitarlo limitandosi a fare il padre nobile della canzone italiana ed evitando di misurarsi con i ggiòvani, sul terreno dei quali è battuto in partenza anche se canta un pezzo di Jovanotti (da quando sul mercato c’è Mahmud ho rivalutato perfino Jovanotti), che oramai, quanto a ggiòvani, è pure lui fuori mercato. Il pezzo s’intitola “Apri tutte le porte” e mi fa pensare a una sorta di nemesi visto che tanti, ma tanti anni fa lo stesso Morandi cantava “Ho chiuso le finestre”. Vedo e sento un chiaro segno di regressione allo stadio infantile: il brano ricorda “fatti mandare dalla mamma”, quanto ad atmosfera, ma debbo ammettere che fra i pezzi sentiti finora è il più musicale. Non potrà mai vincere il festival. Voto: 6.

Intervallo nella gara per un siparietto con Fiorello. Straordinario, come sempre, col pubblico che gli dà la carica e gli permette di dare il meglio di sé. Lo spettacolo vero lo fa lui e rende sopportabile perfino la gara.

Gara che torna con Muti che presenta “La rappresentante di lista”, ossia una coppia con lui che ha una testa rosa confetto e lei un diadema che deve aver comperato in qualche emporio cinese. I due cantano “Ciao ciao”, che hanno scritto loro. Non è una canzone perché non ha un tema musicale, non ha una struttura e a parte il ritmo e qualche parolaccia (“culo”) qua e là nel testo, non si fa notare che per il vagolare dei due per il palcoscenico con i tipici movimenti vagamente spastici dei ggiòvani performer che vanno tanto di moda. Voto 2, ma sicuramente piaceranno alla sala stampa, che vota stasera e domani per le prime esecuzioni dei brani in gara e i giornalisti non possono mettersi fuori dal mercato. Da giovedì tocca al pubblico a casa, e quindi andrà ancora peggio.

Due parole di Amadeus per ricordare Tito Stagno, rappresentante della TV che non c’è più, quella garbata, colta e civile, dei tempi in cui a Sanremo si cantavano canzoni cantabili; per quanto, mi ricordo che anche allora ci si lamentava della qualità di quelle canzoni: ma in quegli anni c’erano Tenco, Endrigo, Modugno, Donaggio… Oggi il convento passa Mahmud e la Rappresentante di Lista: tocca accontentarsi.

Sesto in gara un cantautore dal nome Michele Bravi, vestito in nero con le maniche ricamate di fiori bianchi. Canta “Inverno dei fiori” (ecco il perché delle maniche fiorite). Mi mancavano gli incipit borbottati, che un tempo erano una certezza, e lui colma la lacuna: comincia proprio borbottando parole singhiozzanti. Il suo look è androgino e la voce pure, cosa un tempo originale ma che oramai non scandalizza nemmeno il senatore Pillon. In compenso il brano non si sa da dove viene e dove vuole andare. Comunque spero che ci arrivi in fretta perché è davvero imbarazzante. Voto 3, per il coraggio che il Bravi dimostra dicendo, fra un borborigmo e l’altro, “se fossimo dei suoni sarebbero canzoni”. Stasera vanno i finali bruschi.

Ospitata dei Maneskin con inutile siparietto di Amadeus che si traveste da autista per andare a prenderli fuori dall’Ariston dove la bassista dal visetto di bambina, nuda sotto la giacca con i capezzoli coperti dalla consueta croce di nastro adesivo nero, trema dal freddo. Il successo dei Maneskin è stato mondiale e pur se la loro musica non appartiene al mio orizzonte musicale non posso non compiacermene, se non altro per amor di patria; ma in tutta sincerità sono ben più felice del successo che nel mondo, pur se in modo più composto e in tutt’altra dimensione, raccoglie ad esempio Beatrice Rana. Per chi non lo sapesse, Beatrice Rana è una straordinaria e giovanissima pianista; ma suona musica classica: roba che non va di moda, e in più il suo make-up è molto meno vistoso di quello dei Maneskin.

Settimo in gara è Massimo Ranieri, che canta “Lettera di là dal mare”, un titolo che sa di tradizione. È infatti una struggente canzone da emigrante, dal bel testo ben cantato e con una bella struttura musicale: una gemma inattesa in mezzo al magma informe del resto che ho sentito finora, a parte il pezzo scanzonato di Morandi, che comunque sparisce di fronte all’intensità di questo pezzo. Il mio voto è 10, perché sono vecchio e continuo a pretendere che le canzoni siano cantabili. Ma Ranieri non vincerà perché, incredibile, la sua è una vera canzone, con melodia, armonia, testo bello e intenso: roba fuori moda, anche lui avrebbe dovuto evitare di presentarsi al festival.

Ottava esibizione è quella di Mahmud (che dunque, implacabile, colpisce due volte) in coppia con Blanco: mamma mia non ci posso pensare. Eseguono “Brividi”. Mahmud mi sa tanto di bravo ragazzo, ha gli occhi buoni e il sorriso dolce e credo che sia un ragazzo molto educato e simpatico. Peccato che si ostini cantare: la sua voce è stridente e sgradevole, i suoni che emette ricordano una forchetta che stride sul piatto se tagli una bistecca troppo dura, e quando comincia a emetterli temo sempre che mi frantumi qualche pezzo nella cristalleria. Di sicuro mi frantuma altro, ma si tratta di parti anatomiche che non posso citare. Testo poetico che blatera di “andare via” e di “raccontare una bugia”, roba da premio Nobel della Nullità. Non manca la rappata, figuriamoci, affidata all’altro, a Blanco, che è un po’ meno nudo di Achille Lauro e si mette e poi si toglie un mantello, credendo di fare qualcosa di spiritoso. Voto 0. Anzi, 1, perché la cristalleria si è salvata nonostante l’impegno di Mahmud. Incomprensibile entusiasmo del pubblico; sicuramente il pezzo è candidato alla vittoria.

Ospitata di Matteo Berrettini, il tennista. Dopo la girata di palle provocata da Mahmud, uno che le palle le prende magistralmente a racchettate ci sta, a maggior ragione perché diversamente da Mahmud non lo fa con le mie. Torna anche Fiorello, e saluta l’intera famiglia Berrettini. Poi parte la pubblicità. Non faccio in tempo a compiacermi dell’assenza degli artigiani di Poltrone&Sofà, che a tradimento mi colpiscono le cellule dell’acqua Lete. Tolgo l’audio al televisore, ma è troppo tardi.

Riattivo l’audio quando Ornella Muti, che si è cambiata d’abito, in un lungo con spacco ascellare scende con qualche incertezza le scale, inciampa nella gonna dalla parte opposta allo spacco e poi presenta la nona esibizione, quella di tale Ana Mena, che apprendo essere spagnola e di sicuro è un idolo dei ggiòvani. Il testo è di Rocco Hunt, il rapper napoletano, quello che ha i tatuaggi anche sulle falangi delle dita; “200000 ore” è il titolo del pezzo. Non si capisce niente di quello che la ragazza dice, ma il ritmo è un omaggio alla sua origine geografica. Lei è la tipica bambolina prefabbricata, sembra uscita dalla scatola apposta per cantare questa cosa insignificante, di sicuro poi ce la rimettono per non sciuparla. Voto 4, per il coraggio che ha dimostrato vestendosi con una mini rosa che sovrasta certi stivaloni improbabili dello stesso colore, roba che manco i cacciatori di balene del capitano Achab e almeno loro la scusa per metterseli ce l’avevano. Comunque non rosa.

Il decimo pezzo lo propone un altro ggiòvane. Si presenta vestito di cuoio, ha un nome impronunciabile che si scrive Rkomi, ed esegue “Insuperabile”, uno squallido rap inutile e sgradevole. Il titolo è sbagliato: in realtà dovrebbe essere “Insopportabile”. Voto: meno 10 (tenendo conto del fatto che è decimo, ci sta). Ma piacerà di sicuro ai ggiòvani come lui.

I Maneskin si confermano star internazionali tornando per una seconda esibizione, un brano che comincia in modo molto poco rockettaro ma poi però si ravvede e diventa uguale a quello dell’anno scorso, almeno così pare a me che sono abituato a pretendere di capire che accidenti dice uno quando canta e ad aspettarmi che nel canto ci sia magari uno straccio di melodia. Ma Damiano, il frontman, si è commosso, le lacrime gli sciolgono il trucco sotto gli occhi e dunque il testo deve essere qualcosa di intenso. Chissà, se ci si fosse capito qualcosa, magari mi commuovevo pure io.

L’undicesimo in gara è tale D’Argen D’Amico che si presenta in tuta rosa, occhiali neri squadrati e scarpe da ginnastica, tipica tenuta da pirla o da rapper, che poi è lo stesso, e apprendo essere un grande collaboratore di altri performer e si autodefinisce “cantarapper”. Mah. Ci si è messo con altri tre per comporre e scrivere “Dove si balla”, che il D’Amico esegue abbandonandosi alle tipiche movenze semispastiche dei rapper. Il livello qualitativo ricorda gli 883 ma è un tantino inferiore, perché almeno un tentativo di melodia negli 883 c’era. Dunque siamo nei pressi dello zero assoluto: il brano gioca tutto sul ritmo, il resto è inesistente.

Resto eroicamente in attesa dell’ultimo pezzo in gara, che viene dopo un omaggio a Ornella Muti e ai film che ha interpretato e agli attori con i quali ha lavorato. Non basta: c’è un collegamento, un siparietto organizzato sulla nave Costa Toscana, dove è stato allestito un palcoscenico sul quale ci sono Orietta Berti conciata in modo inverecondo (si è travestita da rosa) e Rovazzi che per carità, con quella sua faccetta da impiegato dell’ufficio IVA è sicuramente simpatico; ma non ho ancora capito perché è dappertutto manco fosse Alberto Angela, che un motivo, se lo si vede, c’è. Il sipario in questione si spiega solo con la sponsorizzazione della compagnia armatrice, che vuole far dimenticare, probabilmente, il decimo anniversario della Costa Concordia.

Dopo la pubblicità bisogna aspettare ancora perché dalla Costa Toscana si esibiscono come ospiti Colapesce e Di Martino, che già ho avuto occasione di stroncare l’anno scorso e torno a stroncare anche quest’anno per la loro inconsistente “Musica leggerissima”. Confermo il giudizio sulla canzone, che come da titolo è fatta di nulla (nel disco la eseguono con un intervallo di terza, evidentemente artificiale, visto che sono incapaci di esibirlo dal vivo), e aggiungo un giudizio ancora più severo sulla loro tenuta da marinaretti, imbarazzante sui bambini di sei anni, agghiacciante su individui che si suppone siano adulti, maturi, e consapevoli delle proprie azioni.

Il povero esecutore della dodicesima canzone deve tirare ancora il collo perché c’è un’altra ospitata, stavolta dell’attore Claudio Gioè, che si autopromuove e presenta finalmente Giusi Ferreri, la cui voce mi ha sempre fatto pensare a una pescivendola irritata della Vucciria di Palermo. Esegue “Miele” di cui nessuno si ricorderà, è facile prevederlo, di qui a un paio di settimane; destino peraltro comune a quello di quasi tutte le altre canzoni, o presunte tali, che si sono sentite durante la serata. Voto: 4

Aspetto la classifica, certo che i miei giudizi saranno clamorosamente smentiti da quelli della sala stampa, affollata di esperti e competenti musicologi attenti ai gusti dei ggiòvani. Nell’attesa c’è un trio, “I Medusa”, che io ricordavo come gruppo satirico, ma si tratta di omonimia. Questi sono solo tre ggiòvani che fanno roba da discoteca. Fanno finta di esibirsi dal vivo ma il playback è evidente e sfacciato. Producono suoni elettronici, loop ripetitivi e monotoni che sopporto per un paio di minuti prima di togliere l’audio al televisore. In attesa che finiscano penso malinconico a “Ruby Tuesday” dei Rolling Stones, a “Yesterday” dei Beatles, a “Good Vibrations” dei Beach Boys, ad “Africa” dei Toto, a “29 Settembre” dell’Equipe 84 e ad “Acqua azzurra, acqua chiara” di Battisti, per non parlare di “Smoke on the water” dei Deep Purple o “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin. Ma quella era musica; questi producono solo suoni. Vabbè, sono stato sempre un nostalgico e un retrogrado. Comunque è un dato di fatto che quanto più una cosa è insopportabile tanto più è anche interminabile.

Ma finalmente termina, mentre Amadeus insiste a riempirne gli esecutori (definirli interpreti sarebbe eccessivo: una cosa elettronica non la si interpreta, ci si limita a eseguirla) di ingiustificabili complimenti, probabilmente perché la sala stampa deve finire di votare, manco fossero gli elettori del Presidente della Repubblica, che per confermare lo stesso di prima ci hanno messo una settimana.

E bisogna ancora aspettare: dopo un’ennesima infornata di pubblicità e perfino un telegiornale, c’è Raoul Bova che lancia il suo prossimo sceneggiato – anzi: la sua prossima “fiction” (bisogna usare parole inglesi, se no non fa fico) – facendo il prete, “don Massimo”, che sostituisce “don Matteo” (Terence Hill ne ha avuto abbastanza di questa provincia italiana in cui si ammazza qualcuno ogni settimana), come conferma Nino Frassica che entra vestito da maresciallo dei carabinieri. Le battute che pronuncia, al limite dell’imbarazzante, non sono alla sua altezza. Il succo è che mentre Hill andava in bici, Bova andrà in moto; per il resto sarà il solito copione, coi carabinieri che per risolvere i casi hanno bisogno dell’aiuto del padreterno per il tramite del prete del paese. Fossi io il comandante dei Carabinieri, un tantinello m’incazzerei.

Applausi freddi e di circostanza accolgono Ornella Muti che promuove una meritevole iniziativa ecologica: donare un albero. Al pubblico dell’Ariston piacciono i Medusa ma dell’ambiente non gliene potrebbe fregare di meno.

Intanto la classifica si fa ancora aspettare: c’è un’altra infornata di pubblicità. – ninna-ò ninna-ò, che pazienza che ce vo’ – che include lo spot della Suzuki Hybrid, il solo spot col risucchio nella storia della pubblicità.

Omaggio a Franco Battiato, al sindaco di Sanremo, un premio ad Amadeus consegnato da Fiorello che elargisce al pubblico un ennesimo, simpatico ma tardivissimo e interminabile siparietto.

Ancora pubblicità e finalmente arriva la classifica della sala stampa, che vede ultima Ana Mena (si sarà messa a piangere nella sua scatola), undicesimo Yuman (e sono d’accordo), decima Giusy Ferreri (c’era di peggio), nono Achille Lauro (mugugni fra il pubblico), ottavo Rkomi (meritava di peggio, se non altro per il nome che si è scelto), settimo Michele Bravi (quello delle maniche fiorite), sesta Noemi (omaggio, suppongo, alla sua scollatura: la canzone meritava il fondo della classifica), quinto Massimo Ranieri (piazzamento quasi dignitoso, in fondo), quarto Gianni Morandi (idem). Il podio, come avevo previsto, è riservato ai ggiòvani, per me i peggiori, per la sala stampa i meglio del bigoncio: terzo infatti è D’argen D’Amico, secondi i Rappresentante di Lista e primi, o tempora o mores, Mahmud e Blanco.

C’è il rischio che Mahmud vinca anche quest’anno. Sono le due di notte e, sconfortato da questo pensiero, per tirarmi su il morale me ne vado a letto canticchiando “A whiter shade of pale” dei Procol Harum.

Roba vecchia, certo. Ma vuoi mettere?

Giuseppe Riccardo Festa

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