PRIMARIE DEL PD: RILANCIO O ULTIMA SPIAGGIA?

È molto di moda, direi quasi obbligatorio, dire peste e corna del PD: non c’è comico che non lanci la sua frecciatina, non c’è commentatore che non pieghi il labbro in un sorrisetto ogni volta che si parla del più discusso dei partiti oggi attivi in Italia.

Le ragioni ci sono, e sono anche gravi: è ben vero che il PD è in pratica l’unico partito non personale del Paese, con FdI che s’identifica con Giorgia Meloni, FI emanazione di Silvio Berlusconi, M5S ormai tutt’uno con Giuseppe Conte essendosi Beppe Grillo dileguato, Carlo Calenda e Matteo Renzi che si contendono la leadership del loro asfittico terzo polo e la Lega, infine, che continua ad avere “Salvini presidente” nel marchio di fabbrica; ma è pur vero che nel PD imperversa una nomenklatura apparentemente inamovibile, autoreferenziale e indifferente a tutto salvo che all’autoconservazione.

Quella nomenklatura ha permesso alla destra di vincere a man bassa le elezioni nelle due principali regioni italiane, tutta presa come era dai cavilli e dalle alchimie su cui basare i tempi e i modi dell’elezione del nuovo segretario e di realizzazione del congresso: segretario e congresso che, finalmente, dovranno decidere dei destini del partito: formule, bilancini e distinguo sono stati al centro del dibattito, dando alla gente la precisa sensazione di una pressoché totale indifferenza per i programmi, i progetti e le idee.

Finalmente, dunque, il PD deciderà cosa vuole essere. Finalmente, lo ripeto, perché di un partito progressista, attento ai bisogni degli ultimi, guardiano dei diritti delle minoranze e dei “diversi”, fermamente antifascista, aperto ai fermenti culturali, dichiaratamente europeista, l’Italia ha un bisogno disperato, e lo dimostra l’assenteismo elettorale che non a caso, dati alla mano, ha interessato proprio quel popolo di sinistra moderato al quale il PD dovrebbe fare appello e che al PD dovrebbe guardare per sentirsi rappresentato nelle istituzioni.

Il condizionale è d’obbligo: il PD ha perso per strada l’idea stessa della propria identità nei lunghi anni in cui si è concentrato, più che su cosa fare, su “chi non bisogna votare”: prima Berlusconi, poi la Lega, poi Grillo, ora Meloni, mostrandosi pronto, pur di essere “contro” costoro, ad associarsi a chiunque: anche, paradossalmente, proprio a costoro.

Ora il PD chiama il suo popolo, o quel che ne rimane, alle primarie: un rito che, per una volta, non sembra la ripetizione di una stanca liturgia ma davvero un momento fondativo, la svolta che determinerà, finalmente, cosa quel partito vuole essere, dove vuole andare e quali progetti e idee proporre ai cittadini: resterà liberal-democratico e più o meno ancorato ai vecchi schemi, se come sembra probabile vincerà Bonaccini, o avrà il coraggio di guardare veramente a sinistra, agli ultimi, a chi ha bisogno, a chi reclama i suoi diritti qualora invece dovesse prevalere Elly Schlein, gli altri due contendenti essendo – sia detto con tutto il rispetto – semplici comparse?

Resta il dubbio sulla sopravvivenza del PD a queste primarie: i perdenti sapranno accettare l’esito del voto o daranno corso all’ennesima, incomprensibile, velleitaria e autolesionistica scissione, così alimentando la stanchezza, se non il disgusto, dell’elettorato di sinistra e regalando definitivamente il Paese al conservatorismo oggi dilagante?

Perché c’è una maledizione che incombe sul PD: è l’unico partito non personale del Paese, ma di tutti è anche l’unico che rischia di essere seppellito dai personalismi.

Giuseppe Riccardo Festa

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