Parafrasando il vecchio proverbio, secondo il quale il meglio è nemico del bene, mi piace dire che il popolo è nemico del cittadino.
Ci sono politici – di solito, ma non esclusivamente, si tratta di esponenti di movimenti rivolti verso destra – che si arrogano il diritto di parlare a nome del popolo, o degli italiani: li si sente spesso affermare che “il popolo vuole questo” o “gli italiani vogliono quest’altro”. In un Paese che per definizione si divide fra Nord e Sud, regioni, provincie e campanili oltre che per fedi calcistiche, religioni, ideologie, partiti e, nell’ambito dei partiti, in correnti e sottocorrenti, questi signori hanno cioè la pretesa di interpretare una presunta comune volontà plebiscitaria e si autonominano portatori di una messianica rappresentatività universale.
Di questi individui, a mio parere, è opportuno diffidare. Dopo le ubriacature massificanti del ventennio fascista e quelle collettivistiche del sogno bolscevico (la cui realizzazione, fortunatamente, a noi è stata risparmiata), la parola “popolo”, alle orecchie di chi le preferisce la parola “cittadino”, ha assunto un suono decisamente sinistro.
Anche i Padri Costituenti hanno ridotto decisamente all’osso l’uso di questo termine che compare, è vero, già nel primo articolo della nostra Carta fondamentale, dove al popolo viene giustamente riconosciuta (non attribuita) la sovranità; ma subito dopo si precisa che quella sovranità si esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il popolo, insomma, è sovrano, ma non tiranno: non può fare tutto quello che gli passa per la testa anche perché una testa sua il popolo inteso come massa – i Costituenti lo sapevano – semplicemente non ce l’ha.
La parola “popolo” compare una sola volta nei primi dodici articoli della Costituzione, che ne dettano i principi fondamentali, mentre la parola “cittadini” vi appare tre volte; e se estendiamo la lettura anche all’intera Parte prima della Carta, quella consacrata ai diritti e doveri dei cittadini (appunto), scopriamo che quest’ultimo termine appare ben dodici volte mentre il popolo, invece, resta menzionato solo nell’articolo 1.
Non so voi, miei pazienti ventiquattro lettori, ma io amo la nostra Costituzione anche a causa di questi che a un osservatore superficiale possono sembrare dettagli marginali. C’è una bella differenza fra il sentirsi “cittadino”, e quindi individuo libero e pensante inserito con diritti e doveri all’interno di una comunità, e lo squalificarsi a “elemento del popolo”, ossia spersonalizzarsi lasciandosi assorbire in una massa acefala e informe, per giunta delegando a un presunto interprete universale il diritto di parlare, e soprattutto di pensare, a nome di tutti e di ognuno, inclusi sé stessi.
Lungi da me la pretesa di dare lezioni a chicchessia, per carità; però un modesto suggerimento, dopo queste riflessioni, miei arguti ventiquattro lettori, mi sento di proporvelo (liberi poi voi di seguirlo o no): diffidate sempre da chi si erge a interprete di una volontà popolare che semplicemente non esiste. Chi lo ha fatto, lo fa o lo farà in futuro, in realtà interpreta, e tenta di imporre, una ben diversa e generalmente ben più pericolosa volontà: la sua.
Giuseppe Riccardo Festa
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