■Antonio Loiacono
In Calabria, terra antica e stanca, dove le pietre della Magna Grecia custodiscono il silenzio di secoli e la politica sembra aver smarrito la sua voce, Pasquale Tridico ha provato a riaccendere una scintilla. Non di rabbia, ma di fiducia, di senso civico, di futuro.
“L’ho fatto per chi non si è rassegnato,” ha detto la sera della sconfitta, parlando con quella compostezza che nasce più dalla convinzione che dal calcolo. “Per chi ancora crede che la politica debba essere servizio, non potere. Per chi ha scelto di restare in Calabria, anche quando sarebbe stato più facile andare via.”
È arrivato secondo, con il 41,7% dei voti, dietro al governatore uscente Roberto Occhiuto, riconfermato con il 57,2%. Ma i numeri dicono poco di ciò che è successo davvero: solo il 43,1% dei calabresi ha votato. Più della metà ha preferito il silenzio.
“Quel silenzio fa più rumore di qualsiasi slogan,” riflette Tridico. “È la voce spezzata di chi si sente solo, di chi non crede più che il proprio voto possa cambiare qualcosa. Io ho voluto parlare proprio a loro.”
Durante la campagna elettorale, Tridico ha percorso oltre 120 comuni. Strade di montagna, paesi spopolati, quartieri dove lo Stato non arriva più. “In ogni piazza, ho trovato la stessa domanda negli occhi delle persone: ‘Ma voi ci credete ancora?’ E ho risposto che sì, io ci credo. E che il dovere di chi ha avuto delle opportunità è provare a restituire.”
Non era un candidato di professione, ma un “civil servant”, come ama definirsi. “Sono un servitore dello Stato, e credo che la politica torni a essere nobile solo se la si vive così: come un servizio agli altri, non come una carriera personale.”
Il suo linguaggio è stato sobrio, ma intriso di una profondità rara. Ha parlato di lavoro, di sanità pubblica, di acqua e trasporti, di giovani che partono e di famiglie che restano. “Volevo portare la discussione su un piano concreto,” racconta. “Quando dici che lo Stato deve tornare a fare la sua parte, non parli per ideologia: parli per necessità. Perché qui le infrastrutture non arrivano, i medici mancano, le scuole chiudono. Non è una teoria: è la vita quotidiana.”
Anche la coalizione che lo sosteneva — quella fragile intesa tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle — ha mostrato limiti strutturali e scarsa radicazione. Tridico, considerato vicino a Giuseppe Conte e simbolo del reddito di cittadinanza, non è riuscito a trasformare quell’eredità in fiducia reale.
“Il problema non è prendere voti — ha detto — ma far rinascere un’idea di comunità. Non puoi chiedere partecipazione se non dai speranza. E in Calabria la speranza si è spenta da troppo tempo.”
Eppure, nella sua voce non c’è l’amarezza di chi ha perso, ma la lucidità di chi ha compreso la misura del compito. “Non rimpiango nulla. Ho incontrato persone che non votavano da vent’anni e mi hanno detto: ‘Quest’anno tornerò alle urne per te’. Ecco, anche solo per questo ne è valsa la pena.”
La sconfitta di Tridico racconta molto più di un risultato elettorale. Racconta una Calabria sospesa, dove la politica non emoziona più e il disincanto è diventato abitudine. Ma anche qui, nelle pieghe del voto negato, la sua candidatura ha lasciato un segno.
“La Calabria è una terra straordinaria,” dice, “ma ferita da troppa rassegnazione. Io non volevo promettere miracoli, volevo proporre un metodo: ascoltare, costruire, includere. Se anche solo qualcuno ha riscoperto il valore di credere nella cosa pubblica, allora non abbiamo perso davvero.”
La sera della sconfitta, davanti ai suoi sostenitori, Tridico non ha cercato alibi. Solo gratitudine e consapevolezza. “Speravo di dare alla Calabria un altro futuro,” ha detto. “Oggi resta l’amarezza, ma anche la certezza di aver agito con onestà. La politica, se non è amore per la propria terra, non vale nulla.”
La sua candidatura era quella necessaria per ricordare che la politica non è solo potere e propaganda: è ascolto, servizio, dignità!
In una regione dove il silenzio del non voto è diventato abitudine, la voce di Pasquale Tridico continua a levarsi — pacata ma tenace — come un richiamo che rifiuta di estinguersi.
Una voce che ci costringe a guardare in faccia la domanda che nessuno vuole più fare: se la politica non sa più parlare alle persone, chi parlerà per chi ha smesso di sperare?
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