La mia maglietta rossa

Sono stato anche io un migrante. Sono stato deriso e insultato, in quanto meridionale, prima da bambino, dai compagni di scuola, perché dicevo “marrò” invece di “marrone”, poi da adolescente, anche se non avevo più l’accento calabrese, perché comunque, secondo chi mi insultava, avevo “il cutieddu” in tasca e sicuramente pisciavo all’angolo delle strade. Poi, da militare, in Trentino, in Friuli e in Alto Adige, semplicemente perché venivo da sud; e anche da bancario, a Brescia e a Varese: a Brescia, lo ricordo ancora, la barista dell’albergo mi insultò, mentre facevo colazione, perché a suo dire ero un terrone che rubava il lavoro ai ragazzi del posto, dimenticando che stavo portando del lavoro a lei. A Varese, credendo di farmi un complimento, un collega, vedendo che restavo in ufficio anche oltre l’orario di lavoro per smaltire l’arretrato, mi disse che ero “un terrone sbagliato”. Perché i terroni, si sa, per definizione sono infingardi e sfaticati. E sporchi: a Torino, negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, i meridionali andavano bene per lavorare alla Fiat, ma non per averli come vicini: “Non si affitta a meridionali” c’era scritto su tanti portoni.

Tutto questo non l’ho dimenticato. Né ho dimenticato che due miei zii – un fratello di mio padre e uno di mia madre – andarono a cercare fortuna l’uno negli Stati Uniti e l’altro in Svizzera. E i miei figli lavorano entrambi in Francia.

Non ho dimenticato che per i newyorchesi noi emigranti italiani eravamo “dagos”, cani: ci insultavano facendoci il verso, perché non eravamo capaci di pronunciare “dog” come loro e avevamo bisogno di mettere una vocale alla fine della parola. A New Orleans era vietato l’ingresso, nei locali pubblici, a neri e italiani; gli italiani, dopo i neri, erano le principali vittime dei linciaggi e il senatore Theodore Roosevelt, futuro presidente degli USA, trovava giusto e doveroso che gli italiani – sudici, disonesti, fannulloni – fossero picchiati ed emarginati. Sacco e Vanzetti erano già stati condannati prima che il processo iniziasse: erano italiani, tanto bastava. Per francesi e belgi eravamo “rital”, per gli inglesi “wogs”: anche Winston Churchill ci chiamava così, almeno fino all’8 settembre del ’43.

Ci disprezzavano perché eravamo disperati, ignoranti, provinciali, chiusi. I nostri migranti ci hanno messo almeno tre generazioni prima di piantarla di far vestire le donne di nero, di fare chiasso, di comportarsi come trogloditi.

E mi pare, anche, di sentirlo il leghista razzista di turno (magari pure meridionale) che ripete il solito mantra: “e allora perché non te li porti a casa tua”? Lo so che è fiato sprecato, ma lo ripeto ancora una volta: io pago le tasse. Le pago tutte, e le pago sempre. E fra gli scopi per cui pago quelle tasse c’è l’adempimento dei dettati costituzionali uno dei quali, all’Art. 10, afferma: La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Fra i migranti che vengono dall’Africa ci sono anche dei delinquenti? Bella scoperta. Forse che i nostri, di migranti, erano tutti angioletti? Al Capone era un benefattore? I Gambino, Lucky Luciano e gli altri capimafia di New York e Chicago erano forse dei santi? I delinquenti che si nascondono fra i migranti vanno individuati, processati e incarcerati, ci mancherebbe altro: esattamente come i delinquenti italiani, quelli che – e sono tanti – ammazzano le mogli e le fidanzate, si fanno corrompere o corrompono, evadono il fisco, taglieggiano i commercianti, sfruttano la prostituzione, spacciano droga, violentano i bambini. La delinquenza non ha colore né etnia, è una malattia di tutta l’umanità e va combattuta in tutta l’umanità. Il migrante deve rispettare le nostre leggi e adeguarsi ai nostri valori; ma dobbiamo pretenderlo anche da noi stessi, non solo da lui. Anche noi dobbiamo rispettare le donne, comportarci con educazione, essere civili. Stando a quello che leggo su tanti social network non mi pare che siano molti, fra noi, quelli che possono permettersi di dare lezioni, a questo proposito, né ai migranti né a chicchessia.

È pensando a tutto questo che oggi, aderendo all’appello di don Ciotti e unendomi idealmente a Cecilia Strada, Gad Lerner, Pietro Grasso, Libertà e Giustizia, mi sono messo una maglietta rossa.

Giuseppe Riccardo Festa

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