E LO CHIAMANO SPORT

Gli eventi di questi ultimi giorni mi confermano, ove ce ne fosse bisogno, nella mia convinzione -– una convinzione che in queste pagine già ho avuto modo di esprimere – che il mondo del calcio abbia ben poco a che fare con lo sport.

Certi aforismi, primi fra tutti quelli decubertainiani secondo i quali “l’’importante non è vincere ma partecipare” e “bisogna saper perdere”, che in linea puramente teorica dovrebbero informare di sé tutto ciò che ha a che fare con lo sport, sono smentiti, o per meglio dire ridicolizzati, e avviliti, da tutto ciò che ha preceduto, e seguito, la breve avventura in Brasile della Nazionale di calcio italiana.

Dunque l’’Italia ha perso e, leggo, anche male, le ultime due partite. Una salva di accuse si è riversata sul commissario tecnico colpevole di aver selezionato elementi demotivati, non in forma, non amalgamati fra loro. L’’esatto contrario, insomma, di ciò che entusiasticamente di lui e di quegli elementi si diceva dopo la prima partita, quella contro l’’Inghilterra. Io di calcio non ne capisco nulla, però trovo bizzarro questo capovolgimento di opinioni sui giocatori e sull’’allenatore nel breve spazio di quattro o cinque giorni.

Ad ogni modo, l’’Italia non ha passato il turno. Il commissario tecnico si è assunto tutta la responsabilità della débacle ed ha subito rassegnato le dimissioni, dimostrando una serietà e una signorilità ben superiori rispetto alla media dei suoi connazionali che, come si sa, praticano in modo sistematico il gioco dello scaricabarile.

È in fondo comprensibile, comunque, che i tifosi della nazionale si siano arrabbiati e se la prendano con lui e con i giocatori. Ma è immensamente triste che la rabbia di alcuni si trasformi in veleno razzista e scarichi sul giocatore Balotelli, colpevole di essere nato in Africa e di avere la pelle scura, bordate di insulti squallidi e ingiustificati.

Criticatelo, se volete; ma criticatelo per come ha giocato, come fate con gli altri, e non per motivi che con lo sport non hanno nulla da spartire. E ancora di meno con la civiltà.

Ma ben più triste, e più importante di questa, è un’’altra sconfitta: quella di Ciro Esposito, il tifoso napoletano che da mesi lottava contro la morte dopo che, subito prima della finale di coppa Italia tra il Napoli e la Fiorentina, nel corso di un’’incomprensibile “spedizione punitiva” un ultrà romanista gli aveva piantato due pallottole in corpo.

Incomprensibile, beninteso, per persone dotate di normale raziocinio, di umanità e di una scala di valori “normale”. Del tutto logica, invece, nell’’ottica di certi ultrà calcistici.

Di quell’’ultrà abbiamo appreso che è un neonazista e che come lui tanti altri imbecilli sovrappongono a quella calcistica fedi politiche aberranti e violente, generalmente ispirate al fascismo e al nazismo, giungendo al punto di decidere che i tifosi di altre squadre sono “nemici” e che bisogna “punirli”; e poco importa che la loro squadra – nel caso in questione la Roma neanche debba giocare.

Molto si discute, e non da oggi, sulla violenza di questa teppaglia idiota, violenta e ignorante, e molto si continuerà a discutere: episodi del genere si ripeteranno, già dalle prime giornate del prossimo campionato, perché i responsabili –- primi fra tutti i dirigenti dei club – più che discutere non fanno.Si sa di zone grigie, di accordi inconfessati tra i club e gli ultrà: gli ultrà, in conclusione, non si possono fermare.

Ciro Esposito non è la prima vittima innocente di questa idiozia, e, temo, purtroppo non sarà nemmeno l’’ultima. Il calcio italiano, temo, continuerà ad essere da una parte un mostruoso vortice di interessi non sempre puliti, dall’’altra valvola di sfogo di frustrazioni, di campanilismi beceri, di ideologie tanto violente quanto confuse, di razzismo becero e volgare, di violenza gratuita e ingiustificata.

Dunque lasciate pure, nel vocabolario del calcio, parole come “agonismo”, “scontro”, “lotta”, “battaglia”: le appartengono tutte.

Ma per favore cancellate, da quel vocabolario, la parola “sport”.

Giuseppe Riccardo Festa

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