“AMERICA D’OGGI” (III)
di Marco Toccafondi Barni
Tutti anelano il Mid West, ma da quelle parti sono a dir poco imbestialiti. E lo sono da almeno trent’anni. Analizziamo, in questo penultimo articolo, prima del fatidico primo martedì del novembre elettorale, che diamine succede nella zona detta dei grandi laghi. Per quale ragione 7 stati, definiti Swing States, decisivi per capire chi sarà l’inquilino della Casa Bianca, ma soprattutto quali sono le ragioni, più o meno recondite, di tanta rabbia e indecisione.
Le origini della rabbia negli stati in bilico- Si deve risalire a una scelta di tanti anni fa, oltre mezzo secolo, quando nello studio ovale sedevano due uomini: uno nato negli Stati Uniti e infatti formalmente presidente, Richard Nixon, l’altro impossibilitato ad esserlo ma nei fatti lo era, come potrebbe capitare ad Elon Musk oggi, poiché nato in Germania e difatti gran tifoso del Bayer Monaco e appassionatissimo di calcio: Henry Kissinger. Stiamo parlando di un uomo spietato quanto astuto, grande tattico e stratega rivedibile, che all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso prese una decisione che cambierà per sempre il mondo e la storia. Il tedesco nello studio ovale decise che era giunta l’ora, proprio durante la fase apicale della guerra fredda, tra la fine di quei mitici anni ’60 culminati col sorpasso sull’ Urss di Gagarin grazie alla conquista della luna nell’ estate 1969, di farla finita con l’Unione Sovietica. L’ intuizione fu quella di giocarle contro l’avversario più debole del tempo: la Cina di Mao Tse Tung. E’ una mossa classica in strategia quella di giocarsi l’antagonista più debole contro quello più quotato e pericoloso. Dal 1971 iniziò così la geniale tattica di apertura alla Cina, indorata ad uso e consumo della plebe grazie a Olimpiadi e Ping Pong, ovviamente infischiandosene dell’ideologia e ignorando il fatto che teoricamente la Cina di Mao era comunista proprio come l’Urss di Leonida Breznev. Si va avanti dunque e l’apertura alla Cina, insieme ad altre svolte epocali come quella tecnologica, porteranno la storia a galoppare. In soli 18 anni si arriverà al crollo del muro di Berlino prima e addirittura alla dissoluzione dell’Unione Sovietica poi. Il nemico è battuto, non c’è più, la guerra fredda è finita per sempre e gli Stati Uniti sono l’unica vera potenza sulla faccia della terra. La strategia del tedesco a stelle e strisce ha funzionato e in meno di un biennio il mondo ha un altro volto. E’ l’inizio di una nuova era.
1992, la globalizzazione Usa è un altro colpo al Mid West – Era la notte di Natale del 1991 quando lo stendardo rosso sovietico con falce e martello venne abbassato per l’ultima volta dal pennone del Cremlino, sostituito con la bandiera tricolore della Federazione russa di Boris Eltsin. E’ decisamente l’alba di un’altra storia per il pianeta, si apre l’epoca della globalizzazione a stelle e strisce, unica, dove un solo egemone domina i mari e la terra, perché adesso la “manutenzione” di un intero pianeta, per giunta sempre più popolato, è in mano ad una nazione. Il modello americano si mondializza e gli Stati Uniti si trovano a dover gestire tutto il peso della loro vittoria. Dal punto di vista economico, dopo aver duellato con l’Urss sotto ogni profilo possibile, viene globalizzata l’economia e con essa le istituzioni fino ad allora in realtà appartenenti ad una sola parte di mondo, al di là dei nomi altisonanti: l’organizzazione mondiale del commercio, la banca mondiale, etc… Ora diventano davvero mondiali e soprattutto il dollaro lo è, visto il predominio statunitense. È moneta di riserva mondiale, quindi gli egemoni si preoccupano vada a giro per il mondo. Se detieni la banconota con la quale tutti commerciano hai due sole possibilità: regalarla e non lo puoi fare in eterno creandola dal nulla oppure, più saggiamente, commerci importando e quindi aumentando a dismisura il tuo deficit commerciale, che infatti si impenna a tal punto che oggi il deficit Usa è il più alto di ogni tempo nella storia umana. Per distribuire valuta devi dunque importare più di quanto esporti, ovvio: tu egemone e detentore della valuta di riserva mondiale devi pagare agli altri e non il contrario. Tutto ciò significa che, pur gradualmente ma non troppo, dal 1992 sul cittadino e consumatore statunitense comincerà a gravare il peso insopportabile di quel deficit tanto funzionale alla egemonia. Sugli Usa non graveranno più le importazioni dei soli paesi occidentali e cosiddetti alleati, bensì di tutti i paesi del mondo o quasi, gli stati di fatto inclusi nel sistema a stelle e strisce. L’apice di tale tattica la si raggiunge a inizio millennio, a soli 2 mesi dai tragici, ma storicamente poco influenti, attentati alle Torri Gemelle. È infatti l’11 novembre 2001, la data in cui la Cina entra nell’ Organizzazione del commercio mondiale. A quel punto si tratta davvero di organizzazioni mondiali, perché cadono molte barriere doganali e i dazi, ma non si tratta più di Taiwan e dei paesi dell’est europeo o del Sud Est asiatico, bensì di una nazione di quasi 1 miliardo e mezzo di persone. Il peso sarebbe eccessivo per chiunque, perfino per l’egemone, si sovvertono tutti gli schemi e il Mid West, con tutte le sue industrie, finisce fuori dal mercato. Detroit capitale dell’auto non c’è più e la Cina si trasforma nella fabbrica del mondo. Un quarto di secolo fa le 2 superpotenze apparivano quasi in simbiosi tra loro e ormai pronte al grande salto, quello di sciogliersi in amorosi sensi: una come fabbrica del mondo con tanti operai dagli occhi a mandorla intenti a produrre merci e l’altra come quale naturale mercato di sbocco. Si è rivelata un’ennesima illusione post storica ed economicistica, mandata in frantumi dalla Storia e dalla realtà. Oggi a Detroit si è sempre più poveri e l’aristocrazia operaia è sparita, sostituita da una rabbia sorda contro la due coste (California e New York); talmente disperata da trovare in un oligarca e milionario della Grande Mela (Donald Trump) il salvatore che, grazie alla retorica del “Make America Great Again”, riesce a conquistare o almeno giocarsi alla pari stati decisivi e tradizionalmente democratici.
Il bilico nel bilico – Martedì tutto si deciderà in Pennsylvania. Ma perché le elezioni statunitensi si decidono in soli 7 stati dei 50 Usa? Ovviamente alle nostre latitudini nessuno si pone seriamente certe domande, figuriamoci, siamo una provincia e tanto ci basta, loro ci hanno conquistato ormai 80 anni fa e va bene così. Nella realtà, tuttavia, quelle di martedì saranno ben 50 elezioni diverse, anche con regole differenti, dentro un unico evento, ma pur sempre 50 elezioni. Lo scopo dei mitici padri fondatori, che scappavano da un monarca e da una monarchica, da ciò lo scarso potere fuori dalle narrazioni fantasiose dei presidenti Usa, era quello che a decidere chi dovesse diventare presidente risiedesse in questi stati, non è casuale, perché a maggioranza bianca e germanica. È anch’essa una decisione che affonda le proprie radici tanti anni fa, come quella di Kissinger. Quest’anno è lo stato della Pennsylvania ad essere decisivo tra i 7 stati in bilico, pur non essendo geograficamente parlando esattamente Mid West, in quanto detiene il più alto numero di grandi elettori (19) dalle parti dei grandi laghi. Se la Harris colorerà di blu questo stato di circa 13 milioni di abitanti allora avrà la concreta possibilità di diventare la prima donna presidente, altrimenti “The Donald” a gennaio giurerà per il suo secondo mandato. Queste le ragioni per le quali tutti sussurrano e promettono al Mid West, ma vincerà soltanto uno.
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