Dobbiamo ammetterlo: è avvilente. Non c’è settore, ambiente o momento della vita pubblica che prima o poi non veda spuntare la maledetta corruzione, non veda emergere il dannato sistema di scambio, non veda trionfare il solito, sordido, prima io e degli altri chissenefrega.
È una maledizione che ci perseguita e ci umilia. Ma prima di indignarci e di gridare allo scandalo dobbiamo farci un severo e onesto esame di coscienza. È facile prendersela con loro. Sono sempre loro i colpevoli, loro i disonesti, loro quelli che taglieggiano, e spolpano, e approfittano.
Ma noi? Siamo sicuri, noi che ci indigniamo e gridiamo allo scandalo, di meritare l’assoluzione?
Alzi la mano chi non ha lasciato l’auto in divieto di sosta o in doppia fila, tanto è solo per un momento, chi non ha, almeno una volta, pagato un conto senza chiedere la ricevuta per scapolare lIVA, chi non è stato tentato di scavalcare una fila, chi non ha fatto una corsa in autobus o in metro senza biglietto, o col biglietto ma dimenticando di timbrarlo.
Sciocchezze? Peccati veniali? È troppo comodo assolverci con questa scusa. È solo una questione di proporzioni. Il comune mortale, quello come me o come te che mi leggi, deve accontentarsi del peccato veniale ma chi ne ha la possibilità il peccato lo commette su più larga scala. E si assolve, ci giurerei, proprio come ci assolviamo tu e io per il nostro peccatuccio.
Si sente perfettamente innocente, perché fanno tutti così, perché se non lo faccio io lo fa un altro. Esattamente come facciamo tu e io.
Non che sia un vizio solo nostro, intendiamoci. La corruzione è un male endemico in tutto il mondo e in tutti i sistemi politici. Il problema è che da noi non è endemico: è una vera epidemia. Nessuno, appena raggiunge una qualche posizione di potere, sembra esserne esente. Siamo arrivati al punto da considerare normale che così sia: non so leggere altrimenti l’idea che, al Parlamento, si debba poter essere eletti per non più di due mandati. Il significato di una simile stupidaggine è evidente: l’incarico parlamentare non è inteso come impegno per il bene pubblico, ma anzi come possibilità di arricchirsi. E dunque si ritiene che sia morale non permettere che l’abbuffata duri oltre un certo limite: tu ti sei servito, adesso fatti da parte e cedi il posto a un altro.
Alla base della corruzione che ha così intimamente penetrato la nostra società ci sono motivazioni antiche, addirittura culturali: la reciproca diffidenza fra governati e governanti che ci rende tutti uguali, da Courmayeur a Lecce, da Merano a Trapani e l’idea che la res publica sia res nullius. Questa indifferenza verso il bene pubblico ci induce a evadere le tasse, a scaricare al bordo della strada un frigorifero rotto e ad accettare o pretendere una mazzetta, quando ne abbiamo la possibilità.
Da questa stessa radice nascono i due fenomeni che avvelenano la nostra società, la criminalità organizzata e la corruzione, che sono semplicemente manifestazioni diverse dello stesso fenomeno. Una sola è la strada che può, se non eliminare, almeno limitare questa piaga, ed è la via dell’educazione: si torni, nelle scuole, a parlare di educazione civica. Si imponga lo studio della Costituzione. Si instilli l’idea di comunità e si insegni che la propria libertà trova il suo limite là dove comincia la libertà altrui.
Lo so che i risultati non ci saranno subito e che è una strada lunga e difficile.
Ma da qualche parte, perdio, bisognerà pure cominciare.
Giuseppe Riccardo Festa
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