O’ REI E’ IL 10: ADDIO AL GENIO FORSE MENO AMATO.

Marco Toccafondi Barni

– Nel calcio c’è un prima e un dopo Pelè. C’era una volta, nel mondo del pallone, il 10 ed era un numero come un altro, solo dopo lui divenne mito. Infatti il 10 diverrà il calcio stesso, leggenda e genialità, l’arte della trovata impossibile che risolve la partita. No, non sarà più un numero, ma sinonimo di genio. Solo grazie a lui: Pelè. O’ rei, il re nel regno della palla.

Da piccolo lustrascarpe a re – Pelé nasce Edson Arantes do Nascimento, un omaggio del padre all’ inventore della lampadina trascritto male dal solito impiegato dell’ anagrafe, che non manca mai in queste storie di vita o di pallone, ed è un bambino poverissimo. I nonni vendono la legna con un carretto nelle zone più povere, anche se paradossalmente ricche di miniere e giacimenti, del Brasile. Siamo nel centro – sud del gigante sudamericano e spesso quel bambino segue il carretto col solito pallone fatto di stracci e vecchi calzini, compressi per assumere la necessaria forma sferica. Suo padre invece sarebbe stato anche un calciatore di buon livello (Dondinho), ma purtroppo con problemi fisici importanti e in quel tempo il calcio non dava soldi a chi non giocava. Allora il bimbo, pur di guadagnare qualcosa, lustra le scarpe nelle strade di un Brasile all’epoca marginale e in piena indigenza.

Quel soprannome, che lo accompagnerà nella leggenda, in verità lui non lo ha mai amato, anzi, sembra sia stato affibbiato da alcuni compagni di scuola e di strada, invidiosi del suo immenso talento col pallone. Tuttavia è ai Mondiali del 1958 che il pianeta intero lo conosce proprio come Pelé, non sarebbe più cambiato.

Maradona o Pelè – Vuoi più bene alla mamma o al papà? Puo’ anche apparire stucchevole l’ interrogativo, tanto è inflazionato. Ma sono paragoni che si faranno sempre e quindi bisogna portar pazienza. Un inutile quesito calcistico che sopravviverà ai due. E’ stata e sarà per sempre l’eterna domanda del gioco più amato, il tormentone più inflazionato del calcio, l’uovo o la gallina di questo splendido sport. Maradona è stato genio, imperfezione e caos, Pelè genio, perfezione e ordine. Il primo combatteva le istituzioni e il potere, il secondo ci trattava e talvolta le omaggiava. E forse è anche per questo che in fondo non è mai stata una questione tecnica, ma soprattutto di cuore. E al “corazon” non si comanda, come si suol dire, va sempre dalla parte di quello che cade e ha tanti difetti, imperfetto e casinista nonostante il dono. Credo capiti anche a parecchi genitori che naturalmente amano tutti i loro figli, ovvio, però hanno un occhio di riguardo verso quello più debole e imperfetto. Capita perché  il calcio fa popolo e infatti in Brasile il giocatore più amato è stato Garrincha, non Pelè. Perché, vedete, di geni ne esistono pochi, in tutti i campi dell’ esistenza, nel calcio sono stati loro due e prima o poi forse si aggiungerà un altro sudamericano, un argentino: quel Messi fresco di vittoria ai Mondiali. I due non potevano essere più diversi, nella vita così come sul campo. Ad unirli il genio. Unico, irripetibile, straordinario quanto sfacciato e ostentato. Il brasiliano era un destro naturale, ma possedeva anche un eccellente sinistro, frutto di allenamenti continui che trasformarono il suo corpo in una macchina perfetta per giocare a calcio e fare gol. Questa perfezione fisica, in un uomo di altezza media (era poco sopra il metro e settanta) la si ammirò  durante la sua ultima partita ai Mondiali, Messico ’70: un autentico decollo  sulla “roccia” Tarcisio Burgnich. Fu una roba da leggenda, tanto è vero che lo stesso Burgnich, anni dopo, ammise: “Quella volta Pelè non so come abbia fatto, mi è quasi sbucato da sotto la pancia all’ improvviso. Certo, lui va su benissimo, però si vede che io salto storto perché sto recuperando la posizione dopo che Valcareggi ha stabilito di cambiare marcatura, io su Pelé e Bertini su Rivelino”. Ricordi sbiaditi di una finale vinta meritatamente dai brasiliani, contro gli azzurri, con un netto 4-1. Una finale che porterà a Pelé il suo terzo mondiale e alla nazione la Coppa Rimet. Sì, perché il dopo Pelè “costrinse” la Fifa a “regalare” quella coppa ai verdeoro, come da regola, quindi creare l’attuale Coppa Fifa. I grandi rivali dell’ Argentina avrebbero vinto anch’essi 3 volte la coppa del mondo, così come la Germania, ma nel dopo Pelè non sono previsti altri omaggi. Resterà anche quella soltanto a lui. Un ennesimo record insomma, uno dei tanti, come l’incredibile numero di gol segnati: 1281 in 1363 partite. Una media talmente mostruosa da sembrare quasi irreale, nessuno la raggiungerà mai nella storia del calcio. Il suo eterno rivale, “El Diego”, era invece l’opposto, giocava praticamente solo di sinistro, non si allenava mai e di sicuro non aveva un corpo perfetto per giocare a calcio. Anzi, fin dai primi calci nel professionismo i portieri avversari lo irridevano chiamandolo ciccione, per poi venire puntualmente umiliati dal suo talento unico. Probabilmente è proprio per questo che Maradona è stato il più amato: lui rappresenta il caos e la sregolatezza, l’altro l’ordine e lo status quo, infatti venne persino “nazionalizzato” dallo stato brasiliano. Anche per questa decisione statale non ha mai giocato in Europa. E’ una disfida eterna e che non finirà mai, non ci sarà una risposta, neppure ora che dalla terra si è trasferita in cielo.

Garrincha fu il “genio spezzato” della gente, Pelé l’istituzione – Il calcio fa popolo, lo ha sempre fatto. E’ per questo che è il gioco di gran lunga più amato nel mondo. Ci sono stati due fenomeni assoluti nel calcio brasiliano: Garrincha e poi il numero uno  Pelé. Il primo, proprio come Maradona, ebbe una vita sgangherata e fatta di eccessi, morirà poverissimo e distrutto dall’ alcol, però anche come autentica leggenda verdeoro, una continua delizia in grado di far stropicciare gli occhi a chiunque. Il frutto di un’ imperfezione fisica alle gambe che permetteva di effetture dribbling mai visti prima. Praticamente vinse quasi da solo il Mondiale in Cile nel 1962. Pelé si infortunò quasi subito quella volta, ma grazie a genio, sregolatezza e scatti magici sulla fascia Garrincha portò in Brasile il secondo titolo mondiale. Quando muore tutto il Brasile scende in strada per omaggiarlo, ovunque, consacrandone la grandezza, ma anzitutto l’amore popolare per i “geni spezzati”, per il prodigio che cade mostrandosi umano. E forse è proprio questo che il mondo non ha mai “perdonato” a Pelè: essere troppo perfettino, troppo macchina, troppo tiepido e tenero con il potere. La gente perdona meglio il genio, che spesso invidia, se questo qualche volta cade a terra.

Pelè, il “Maracanazo” e la ginga – Narrà la leggenda che i suoi primi allenatori non lo amassero. Non certo per la classe, immensa fin dai primi calci, ma perché come tutti i brasiliani di quell’ epoca erano vittime del “Maracanazo”. Era il 16 luglio del 1950, data indimenticabile. E’ praticamente ciò che Tsushima rappresenta per la Russia e lo Zar in campo militare. Un’ autentica disfatta sulla soglia della gloria. Sì, fu anche una di quelle partite iconiche e che entrano di diritto nella storia del calcio appena si sente il triplice fischio. Quel giorno il Brasile perse al Maracanãcontro i rivali sudamericani del piccolo Uruguay. E’ Davide contro Golia e vince il piccolino, lo fa addirittura nel tempio del calcio: il Maracanà di Rio de Janeiro. Sarà tragedia nazionale, non a caso ricordata ancora oggi come fosse ieri. Il padre di un piccolo Edson è in lacrime come tutto il paese e allora suo figlio per consolarlo prometterà di vincerlo lui un Mondiale. Ne vincerà 3 e porterà in Brasile persino la Coppa. Ma quella drammatica giornata di metà luglio segnerà comunque per sempre il paese e i brasiliani, che per troppo tempo non vorranno più sentire parlare della ginga e del calcio ballato. La tattica più spavalda di tutte e che contraddistingue il Brasile: sempre all’ attacco unicamente per segnare e sognare insieme. Divertirsi e far gol anche se non serve. Un’ abitudine cara ad un allenatore spesso dimenticato, eppure bravo, come Telè Santana. L’ osteggiato tecnico che buttò via il Mondiale del 1982, a favore degli azzurri di Enzo Bearzot, pur con una nazionale stellare. Dopo il “Maracanazo” gli “europei brasiliani” si promisero di passare a moduli, tattiche e schemi. Via dunque la ginga, dove Pelè era un maestro assoluto, niente più calcio ballato e quindi niente Brasile dell’ indole, bensì tutti a scopiazzare i maestri europei: applicare tattiche, moduli e schemi, sacrificando bel gioco e antiche danze quasi primordiali. Si decide di andare avanti e scegliere la modernità, nonché la rigidità schematica del calcio europeo. Ma andrà diversamente, perché il calcio e la storia hanno spesso altri piani rispetto alle miserie degli umani e al solito fanno di testa loro. Quell’ anno a smentire tutti arriverà un calciatore quasi bambino, invero allora neppure maggiorenne, che incanterà il pianeta ribaltando ancora una volta la logica con una palla. Fu una girandola di giocate epiche e mai viste fino ad allora, frutto della ginga, quel calcio ballato tipico dei brasiliani, che deriva da un’ arte antica, quasi magica, una mistura tra ballo, calcio e arti marziali,che rende unico il calcio brasiliano. In quel 1958, vincente e indimenticabile, il Brasile e i brasiliani dimenticheranno il “Maracanazo” vincendo il loro 1° titolo mondiale. La gloria e la leggenda dei Pentacampeões inizia proprio lì, in Svezia: dall’inimitabile Edson Arantes do Nascimento. In arte e in genio semplicemente Pelè.

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