L’AMARO 18

La legge 20 maggio 1970, N. 300, nota come “Statuto dei lavoratori”, stabilì come dovevano funzionare i rapporti fra le imprese e i loro dipendenti. In particolare, l’’articolo 18 della legge aboliva – per le aziende con più di 15 dipendenti la libertà di licenziare singoli lavoratori se non per giusta causa. Il lavoratore licenziato senza che gliene fossero motivate le ragioni, o in modo ingiustificato, o discriminatorio, aveva diritto al reintegro nel posto di lavoro.

Questa norma ha scatenato la polemica che contrappone la Confindustria ai sindacati, i sindacati al governo e fra di loro, e la maggioranza PD alla minoranza (di fatto la componente più genuinamente di sinistra) del partito.

Secondo i detrattori, questa norma genera un’’eccessiva rigidità nel mercato del lavoro al punto di scoraggiare gli investitori, che non trovano conveniente correre il rischio di tenersi sul groppone degli operai che, in caso di calo di attività, vorrebbero invece mettere in libertà, sia pure corrispondendo loro un congruo indennizzo.

Secondo i difensori è vero il contrario: gli imprenditori, dicono, tendono a scaricare sui dipendenti le conseguenze delle crisi e le difficoltà produttive: la prima cosa cui pensano è di abbattere i costi licenziando parte delle maestranze. Anche perché, dicono ancora i difensori dell’’Art. 18, gli imprenditori italiani non fanno ricerca e sono restii ad investire ed innovare. L’’industria italiana produce per lo più beni di scarso valore aggiunto facilmente fabbricabili altrove a costi ben più modesti come calzature, abbigliamento, arredamento, accessori e simili. Dunque è iniquo, dicono, far pagare al lavoratore le conseguenze di un’’imprenditorialità asfittica, senza idee e senza coraggio; un’’imprenditoria che fra l’’altro, appena può, smonta tutto e se ne va a fabbricare in Albania, Romania o addirittura India o Bangladesh le sue scarpe, l’’abbigliamento, l’’arredamento, gli accessori eccetera.

Le obiezioni dei difensori dell’’Art. 18 sono tutt’altro che inconsistenti, anche in considerazione del fatto che in realtà a scoraggiare gli investimenti dall’’estero in Italia, più che l’’Art. 18, sono la lentezza dei tribunali, le farraginosità amministrative, la burocrazia asfissiante, la corruzione dilagante, la pessima qualità di certe infrastrutture.

E ancora: già con l’’introduzione dei contratti di lavoro cosiddetti “atipici”, l’’importanza delle tutele garantite dall’Art. 18 ha cominciato ad affievolirsi, e un ulteriore indebolimento è poi sopravvenuto con le norme introdotte dall’’ex ministro Fornero, quella che invitava i disoccupati a non essere troppo “choosy” (schizzinosi) e piangeva pensando ai sacrifici che stava per imporre alle classi più disagiate. Evidentemente sapeva quel che stava per fare.

In conclusione, i dipendenti tutelati da questa norma dello Statuto dei Lavoratori oggi come oggi sono in realtà pochi. Ma allora, perché s’’accapigliano tanto? L’’impressione è che, da una parte come dall’’altra della barricata, di questa norma si faccia una bandiera.

La Sinistra, difendendola più o meno strenuamente, difende uno dei capisaldi della propria ragion d’essere; la destra, e il governo, vogliono dare una spallata a un sistema di tutele che, fra contratti atipici, pseudo partite IVA e assunzioni a progetto, di fatto riguarda sempre meno persone.

In realtà è finita un’’era, quella forse chimerica in cui ci siamo illusi che davvero la dignità delle persone fosse una priorità. Oggi la priorità va all’’economia; e l’’economia si governa in modo astratto, con l’’occhio al debito pubblico, al PIL, ai fatturati, alle esigenze del mercato, alla competitività. Le persone non sono che una delle tante variabili di una mostruosa equazione: «è la globalizzazione, bellezza».

Agli occhi dei liberisti più sfrenati, la globalizzazione ha un merito enorme: ha messo in competizione fra loro i lavoratori a livello mondiale. Se un bengalese è disposto a lavorare tredici ore al giorno per sette giorni alla settimana in cambio di 200 euro e di una ciotola di riso, se la ridono, i liberisti, delle pretese degli operai in Italia.

È così che un primo ministro teoricamente di sinistra, contrastato da un’’opposizione che quando non è opportunista è più di forma che di sostanza, può spacciare per progresso una limitazione di diritti che, dice, porterà ad un aumento dell’’occupazione.

Non ha bisogno di dire che quell’’occupazione, se davvero ci sarà, sarà meno sicura, meno pagata e meno tutelata. Quello che, fra le righe, lascia intendere, è che non c’è scelta: volere o volare, prendere o lasciare, o mangi questa minestra o salti dalla finestra.

È quello che succede quando le persone non sono più tali, ma diventano semplici variabili nella grande equazione dell’economia globale.

Giuseppe Riccardo Festa

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