LA STORIA UMANA E’ SENTIMENTO, NON ECONOMIA.

“It’s economic stupid”. E’ senz’altro una delle frasi piu’ stupide che si possono immaginare.
La diretta conseguenza degli equivoci clamorosamente errati che hanno permeato la storia dell’umanitá, almeno negli ultimi due secoli. Si tratta della convinzione, sbagliata, che sia l’economia a fare la storia, quando in realta’ non la forgia, non lo ha mai fatto ne’, probabilmente, mai lo fara’. Non e’decisiva come molti, fin troppi, ritengono. Sembra essere tutto in alcuni luoghi della terra, ma non ovunque. Del resto le prove di cio’ sono dappertutto. Per esempio nel potere decisionale delle facoltose multinazionali, troppe volte evocate, a vanvera: potentissime in Africa, Sudamerica e forse anche in Spagna o in Italia, ma all’ occorrenza ridotte al nulla negli Stati Uniti. E anche questo ci dimostra come, al massimo, l’economia e’ solo uno strumento forse importante, ma non certo decisivo ai fini della storia. Bisogna cominciare a pensare alle nazioni come a delle collettivita’, prima di tutto. Un insieme di persone che, appunto, come tale si comporta, vive, pensa e agisce. Soltanto allora entra in gioco la grande domanda, forse addirittura il quesito fondamentale: che cosa e’ e fa veramente la storia ? La risposta e’ il sentimento.
Proprio cosi’, infatti tutti noi viviamo la quotidianita’ prendendo decisioni anti economiche, anzi sono le piu’ importanti: fare figli, sposarsi, regalare doni alle persone care e agli amici intimi, seguire in casa e magari in trasferta la squadra del cuore. Sono tutte scelte economicamente dannose, ma le facciamo lo stesso unicamente perche’ ci fanno star bene grazie al sentimento che suscitano.
E’ la voglia di potere, la potenza, il desiderio di restare comunque nella memoria per qualcosa di importante a muovere alcune collettivita’ e di conseguenza chi le guida. E continuando col parallelismo tra nazioni e singoli individui, veniamo ad alcune considerazioni che provano tutto cio’. Non ci si deve mai fidare di un’analisi in quanto tale, bisogna sempre esigere le prove.
Tali prove, proprio come con le persone, risiedono nelle differenze tra potenze, nazioni o addirittura imperi e i vari satelliti. Esattamente come accade con una persona molto ambiziosa, penso sempre all’esempio di Sergio Marchionne, questa avra’ un modo di fare risoluto e deciso, uno stile di vita ”violento”, prima di tutto con se stesso. All’ altare dei suoi obiettivi sacrifichera’ la sua vita, gli affetti,
l’amore e il tempo. Tutto questo per l’illusione di rimanere, anche dopo la morte e grazie ad un’ impresa, nella memoria collettiva. Per questa ragione sacrifica tutto al suo disegno di vita.
La stessa logica che muove un Marchionne nel micro vale anche per tutte quelle nazioni e collettivita’ che si sentono parte di un progetto nel macro. Piu’o meno velletario che sia, non e’ importante questo, perche’ e’ ovvio che tra la Turchia o l’ Iran e gli Usa e la Cina ci siano notevoli differenze. Tuttavia vi e’ anche qualcosa in comune: sentirsi soggetti politici e storici in grado di fare la storia dell’umanita.
Insomma credersi un impero e per questo, proprio come nell’ esempio di Marchionne, essere disposti a vivere peggio, affrontare avversita’ e sacrifici non di poco conto. Tutto, pur di cullarsi in qualcosa che talvolta resta un’ aspirazione, soprattutto nei periodi storici dove impera un’unica potenza egemone,
come adesso. A tal proposito rammento un’ intervista a Umberto Agnelli, correvano gli anni ’90, poco dopo la prematura morte del figlio. Agnelli ne parlava quasi fosse un avvicendamento aziendale, un valido collaboratore passato alla concorrenza. Pensai, Cristo, ma sta parlando del figlio appena morto e sembra parli di uno dei tanti manager della FIAT. No, non era la tipica compostezza sabauda di fronte ai sentimenti, c’era altro: il prevalere di un obiettivo, di una causa superiore, persino davanti alla scomparsa di un figlio ancora giovane. Era quel farsi “soldato” di una causa che ritieni essere giusta e quindi superiore a tutto e a tutti. In tal caso si trattava di Umberto Agnelli, soldato del capitale, ma la molla e la logica non sono diverse da quelle che negli anni ’70 mossero un Mario Moretti o una Adriana Faranda, che lasciarono dei figli quasi in fasce per dedicarsi alla lotta armata. Siamo sempre allo stesso punto:
sacrificarsi per fare o illudersi di fare la storia.
Le due dimensioni parallele: paesi storici e post storici.
Se dalle scelte dei singoli, quindi dal micro, passiamo al macro, ovvero alle decisioni di intere collettivita’, ebbene ci troviamo di fronte a una distinzione fondamentale: l’enorme differenza tra paesi storici e post storici. Sono due fasi, quasi due dimensioni parallele, se vogliamo usare questa metafora da film di fantascienza, che coesistono nello stesso mondo e nello stesso tempo. Un paese post storico, come l’Italia per intenderci, si dedichera’ alla “dolce vita”, ovvero esclusivamente all’economia e al raggiungimento del benessere immediato. Esso si immagina, insieme ad altri paesi simili, quasi sospeso dentro quella fatidica “fine della storia” teorizzata dal politologo Francis Fukujama all’indomani del crollo del muro di Berlino e della fine dell’Unione Sovietica. Agli albori di questa nuova era che stiamo vivendo e che, erroneamente, i media hanno battezzato globalizzazione (quasi fosse la prima, inedita e soprattutto economica) il celeberrimo politologo naturalizzato statunitense si lancio’ in una previsione come minimo azzardata: con la fine dell’URSS e di quella guerra fredda che aveva diviso il mondo in 2 blocchi la storia umana era praticamente finita. Il capitalismo e la liberaldemocrazia avevano definitivamente vinto. Tutto il mondo, pian piano, avrebbe capito e si sarebbe adeguato e abituato a questa organizzazione sociale, poiche’superiore e dunque definitiva. Al povero Francis, da anni, ridono dietro non pochi accademici e analisti per tale analisi. Tuttavia, se la sua previsione resta una assurdita’
per quel che riguarda i paesi storici non risulta poi cosi’ sbagliata per quanto concerne i paesi post storici che, effettivamente, vivono in quella dimensione parallela che definirei “la dimensione economicistica”.
Prendiamo per esempio l’Italia: qui da noi veramente siamo convinti che tutto sia economia e se va bene quella allora buona vita a tutti. E’ il tipico pensiero di chi e’ sottomesso e conscio di non poter fare la storia ne’ essere in grado di particolari sacrifici per raggiungere tale obiettivo, allora si balocca con l’economia, pensando che sia la chiave e nel contempo la molla di tutto lo scibile umano. Ma non funziona cosi’, ne’oggi ne’mai. Esiste infatti un’ altra dimensione, che non si trova ai confini ma nella realta’ : quella storica. Tipica in paesi e collettivita’ che si vedono in grado di farla la storia e talvolta la fanno per davvero. Anzitutto sono la potenza o le potenze egemoni (nella nostra contemporaneita’ i soli Stati Uniti), dopodiche’ altre nazioni o potenziali imperi rivali dell’egemone (Cina, Russia, Iran, Turchia).
Tali stati vivono come in un’ altra dimensione rispetto a noi italiani e a tutti i paesi dell’Unione Europea, sanno perfettamete che la cifra non e’ far la “bella vita” e vedono l’economia soprattutto come uno strumento per conquistare mete, spodestare l’egemone oppure, nel caso di quest’ultimo, restare tale. Un eventuale aumento del PIL e un periodo di vacche grasse per loro si trasforma in qualcosa di utile per acquisire altro potere e non per vivere di bagordi e baccanali. Anzi, non e’ raro che, pur a fronte di un risultato economico positivo, si chiedano dei sacrifici alle proprie collettivita’. Tornando nuovamente alla metafora con i singoli e al micro, un fatturato positivo in un’azienda non si tramuta necessariamente in un aumento di salario per i dipendenti ma talvolta in licenziamenti, al fine di risparmiare soldi e magari acquisire un’altra azienda strategica per la propria produzione. Un evento che non e’ raro nel mondo del lavoro, anzi. Proprio perche’ quando si tratta di stati storici l’obiettivo strategico e’ sempre nettamente
superiore a quello economico. Non e’un caso che gli stati post storici, cioe’ quelli che si dedicano e credono soltanto all’economia, siano mediamente popolati da anziani. Uno stato storico, che quindi vuol fare la storia o perlomeno provarci, deve ovviamente essere composto necessariamente da giovani, perche’ solo coi giovani si puo’ fare la guerra o minacciarla. Una condizione essenziale per essere potenza o pensarsi e vedersi impero. Per questo gli Stati Uniti vivranno sempre di immigrazione e l’Italia di lotta all’ immigrazione.
Le due anomalie: Germania e Giappone.
Proprio l’eta’ media ci evidenzia come due nazioni, Germania e Giappone, sono potenzialmente storiche, nonche’ ex imperi di enorme importanza e con popolazioni assai capaci, ma oggi ridotte ad essere satelliti dell’ impero statunitense. Entrambe uscite rovinosamente sconfitte nella II guerra mondiale sono membri del G7 e hanno cittadini mediamente abili, come dimostrano le loro industrie e i loro prodotti,
senz’altro tra i migliori del mondo, pero’ restano satelliti e post storici. Ne hanno le caratteristiche evidenti: un’eta’ media elevata e un benessere diffuso, una qualita’ della vita tra le migliori in assoluto.
Restano dunque satelliti, per quanto molto importanti dal punto di vista strategico, ma sempre con un occhio di riguardo da parte degli USA, che nutrono verso di loro un sospetto nemmeno troppo velato, a causa della loro vera natura di fondo che, potenzialmente, resta storica e imperiale. A differenza di paesi come l’Italia o la Spagna. Dunque, per l’egemone USA inquietanti e preoccupanti: sono satelliti si’, ma da attenzionare continuamente. Anche da queste paure USA nasce il governo Draghi, che ha funzione di duplice garanzia: per gli Stati Uniti a livello strategico e per la Germania a livello economico.
Ma questa e’ un’ altra questione che magari affronteremo prossimamente. Come Italia ci riguarda da vicino.

MARCO TOCCAFONDI BARNI

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