La politica è (o dovrebbe essere) una cosa seria

Quello che ormai dovrebbe essere chiaro è quanto sia balzana l’idea che le responsabilità politiche – parlamentari e di governo – possano essere assunte da chiunque, anche se non ha la più pallida idea di come le cose funzionino, non sa nulla della struttura delle istituzioni e non ha mai letto non dico la Costituzione e non dico un libro di diritto, pubblico o privato, ma nemmeno un libro che è uno, fosse anche “Tre metri sopra il cielo”, in tutta la sua vita.

La cosa, ovviamente, non vale solo per la politica: il professor Roberto Burioni ha giustamente mandato a quel paese certi personaggi che pretendevano di dibattere pubblicamente con lui in materia di immunologia e medicina: laureatevi in medicina, ha risposto; poi specializzatevi, fate i master che ho fatto io, acquisite il bagaglio di conoscenze che ho io in materia, e dopo potremo dibattere alla pari. Fino a quel momento, voi vi sedete, zitti e buoni, e in materia di medicina e immunologia ascoltate quello che io ho da dire, e poi mi dite anche “grazie”.

Tornando alla politica, a dispetto dei tristi precedenti rappresentati da personaggi come i signori Razzi e Scilipoti (per non fare che due nomi), incautamente portati in Parlamento dall’improvvido Antonio Di Pietro,  alcuni partiti, primo fra tutti il M5S, hanno invece promosso la selezione dal basso della classe politica, con l’aggravante del vincolo (ora peraltro messo in discussione) dei due mandati: aggravante perché, trattandosi di gente a digiuno di tutto, rimandarli a casa proprio dopo che, si suppone, hanno imparato qualcosa, significa condannare il Parlamento all’inefficienza. Salvo che si intenda fare di deputati e senatori dei semplici yesman, obbedienti burattini incaricati di dire “sì” o “no” secondo gli ordini dati dalla segreteria del partito, dal padre più o meno nobile o dalla direzione della Srl di riferimento.

Oramai, dunque, dovrebbe essere evidente: per fare il parlamentare e assumersi responsabilità di governo bisogna, come minimo, saper scrivere ed esprimersi in un italiano almeno decente, e possibilmente conoscere almeno l’inglese a un livello ben superiore del semplice “the book is on the table”. E queste sono condizioni appena necessarie, ma non sufficienti.

Chi magari qualcosa sa fare, ma non ha competenza in materia di diritto (privato, pubblico e internazionale); non sa niente di finanza, non capisce nulla di relazioni sociali; chi non possiede una preparazione adeguata nella gestione della cosa pubblica, maturata ad esempio con esperienze a livello locale e poi da prospettive via via sempre più ampie, deve avere la decenza e il buon gusto di evitare di  candidarsi.

Salvo che, come il già (ma non più) sacro e intoccabile vincolo dei due mandati lasciava sospettare, anche chi crea gli statuti dei partiti pensi che chi si candida lo fa non tanto in vista del nobile impegno da assumersi per il bene della collettività, quanto per godere delle ricche prebende previste per quei ruoli, sperando di essere eletti con lo stesso spirito col quale si tentano sei numeri al superenalotto. Dunque, chi crea quegli statuti pensa sia bene concedere a persone diverse la possibilità di mungere la mucca per qualche anno.

Ma anche l’elettore, a sua volta, dovrebbe pretendere che chi lo rappresenterà possieda serietà e competenze che garantiscono chiarezza di idee, conoscenza delle cose, coerenza nei comportamenti, stile e dignità nel proporsi; così da poter essere orgoglioso e fiero di lui.

Ma certi, tantissimi italiani si sa come sono fatti: eleggono qualcuno, magari lo osannano pure, e se capita gli chiedono raccomandazioni e posti di lavoro; ma si riservano il diritto, che poi esercitano con entusiasmo, di disprezzarlo e di dirne tutto il male possibile, perché “tanto sono tutti uguali”.

E in effetti è vero: i politici sono davvero tutti uguali. Sono uguali, precisi e identici, hanno le stesse virtù e soprattutto gli stessi vizi, di coloro che li eleggono.

Giuseppe Riccardo Festa

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