LA GRANDE FUGA DALLA CALABRIA E LE DEVASTAZIONI PIEMONTESI

Solo il 15 per cento dei giovani calabresi pensa di rimanere in regione per trovare lavoro, affermarsi professionalmente e magari farsi anche una famiglia. Intanto, l’anno scorso, 4 mila laureati hanno lasciato la regione per cercare fortuna altrove, non solo in Italia ma anche in Europa. Continua inarrestabile, dunque, la fuga dei cervelli da quella che è la più disastrata regione del Paese. La nuova ondata di emigranti che partono non più con la valigia di cartone ma col tablet e con l’iphone è un fenomeno che, secondo gli esperti sembra irreversibile. Una realtà drammatica dal punto di vista sociale perché rappresenta la principale causa, ed al contempo la prima conseguenza, del gap di sviluppo che ancora divide il sud, e la Calabria in particolare, dal resto della nazione e del continente. Probabilmente, la vera anomalia rispetto alla rassegnata quotidianità che segna questo angolo di pianeta è la consapevolezza, celata, ma pur sempre presente, che questa Calabria sia ormai irrecuperabile. Troppi i danni procurati dal venefico assistenzialismo risalente all’epoca delle “vacche grasse” e che, adesso, non può più reggere perché privo delle risorse finanziarie risucchiate dalla recessione globale. Una stagnazione che, insieme ai parametri europei, ha imposto vincoli stringenti ai conti nazionali. Era chiaro fin dal principio che le conseguenze più devastanti per le regioni meridionali sarebbero arrivate anni dopo rispetto ai drammi, relativi, vissuti da Roma in su. E smettiamola, cortesemente, di coltivare l’infinito lamento recriminando contro avvenimenti accaduti un secolo e mezzo addietro, imputando ai piemontesi la storica arretratezza, culturale, sociale ed economica del Mezzogiorno. La verità, solida come roccia di granito, è sotto gli occhi di tutti, senza che ci sia bisogno di affondare le radici delle riflessioni in altre ere geologiche: la testimonianza, lampante e recente, ci è regalata dall’ignavia con cui non riusciamo nemmeno a spendere i fondi provenienti dalla tanto vituperata Europa. La causa della nostra evidente arretratezza è da ricercare nella superficialità, nell’indifferenza alla custodia del bene comune, anche se preferiamo continuare a crogiolarci nelle “imperdonabili atrocità” che sarebbero state commesse dai “governanti” che avrebbero saccheggiato le regioni meridionali a vantaggio di quelle settentrionali. Indipendentemente dal fatto che questa è una versione di comodo che fior di storici ed economisti hanno contestato, carte e numeri alla mano, le domande razionali da porci vanno in tutt’altra direzione: Se anche così fosse stato? Dov’era e dov’è tuttora il tanto decantato orgoglio meridionalista? Perché non ci siamo prodigati nel dare vita ad un tessuto imprenditoriale di successo, valorizzando nei fatti, e non con il chiacchiericcio tipico dei perdenti, le “meraviglie naturali” di cui tanto ci riempiamo la bocca? Siamo pronti ad inalberarci solo quando ci sentiamo feriti nel nostro insulso egoismo protezionista, e allora sì, ci mobilitiamo per impedire che i Bronzi di Riace possano essere finalmente ammirati dal mondo all’Expo di Milano. Cosa importa se poi, terminata la bufera mediatica, restano nascosti perché custoditi nel Museo di una città dove i turisti sono una razza protetta, tanto esiguo è il loro numero? E poi, ad esempio, diventiamo finanche intransigenti se qualche esperto fa sommessamente notare che l’aeroporto di Reggio Calabria, la cui pista si allunga in mezzo agli edifici abusivi della periferia sud della città, merita di essere chiuso perché antieconomico ed in perdita costante di voli e passeggeri. Ma, si dirà, possiamo pur sempre godere degli spettacoli offertici dalla Natura, panorami mozzafiato che estasiano. Esatto, ma sono gli unici capolavori divini su cui il calabrese non ha potuto mettere mano, perché, se ne avesse avuto l’opportunità, avrebbe devastato anche quelli.

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