E non per un dio ma nemmeno per gioco:
perché i ciliegi tornassero in fiore
(Fabrizio de Andrè, da E.L. Masters)
È un insulto? Mi sta bene, lo accetto. Insultatemi pure: io sono un buonista.
Se rifiutare il pregiudizio contro gli immigrati, che li vuole tutti “clandestini, spacciatori e delinquenti” vuol dire essere buonista, allora OK: io sono un buonista.
Se rifiutare l’uso della violenza contro chiunque, se non come estrema ratio e per effettiva legittima difesa, significa essere un buonista, ebbene d’accordo: io sono un buonista.
Se combattere la logica meschina di chi dice “prima noi” (che questo “noi” significhi padani o italiani o americani, poco importa) e affermare viceversa che tutti gli esseri umani hanno pari dignità e pari diritti, e non esistono “Paesi cesso” significa essere un buonista, nessun problema: io sono un buonista.
Se confutare l’idea che chi non condivide le mie idee è un nemico da abbattere e non un avversario col quale discutere vuol dire essere un buonista, sono d’accordo: io sono un buonista.
Se pretendere un trattamento umano per i carcerati e per coloro che sono ristretti nei centri di accoglienza significa essere un buonista, allora non faccio obiezioni: io sono un buonista.
Se rifiutare la logica del taglione, per cui se un nero (o un musulmano, o un cinese, o un netturbino o un commercialista) commette un reato allora bisogna vendicarsi su tutti i neri (o i musulmani, o i cinesi, o i netturbini o i commercialisti), tirando a casaccio nel mucchio, vuol dire essere un buonista, allora mi sta bene: io sono un buonista.
Se provare disgusto per il razzismo, in qualunque forma e verso chiunque sia rivolto – oggi i neri e i musulmani e di nuovo gli ebrei, ieri, non dimentichiamolo, gli ebrei e i meridionali italiani – vuol dire essere buonista, allora sicuro: io sono un buonista.
Se condannare gli insulti sessisti rivolti alle donne in generale e a quelle che fanno politica in particolare, quale che sia lo schieramento cui appartengono, significa essere buonista, nessuna obiezione: io sono un buonista.
Se esigere che i politici usino un linguaggio misurato e che evitino, per un mero calcolo elettorale, di solleticare i bassi istinti della gente indicando facili bersagli per la sua rabbia e la sua frustrazione vuol dire essere un buonista, allora perfetto: io sono un buonista.
Sì, sono un buonista, e me ne vanto. Chi tale non si ritiene è autorizzato a darmi del buonista tutte le volte che vuole, non mi offenderò. Al contrario, indosserò questa etichetta con orgoglio e a testa alta, convinto che sia onorevole resistere alla facile tentazione di seguire i seminatori di odio e intolleranza e sia invece doveroso dire, fare e pensare tutto ciò che penso e faccio e dico, seguendo l’esempio di menti del calibro di Socrate, Gandhi, Voltaire, Russell, Beccaria, Leopardi: loro, sì, modelli da ammirare e imitare.
E lascia che te lo dica: non ti offendere ma mi dispiace, sinceramente e profondamente mi dispiace per te, mio caro lettore, se non sei anche tu un buonista.
Giuseppe Riccardo Festa
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