Il dovere della memoria

Il monumento ai martiri di Lidice

In questi giorni che vedono emergere sinistri e osceni segni di un inspiegabile quanto assurdo e ripugnante rigurgito di fascismo, nazismo e antisemitismo, in cui c’è chi sui social network commenta con un “E basta con ‘sta Segre!” le notizie che riguardano i i riconoscimenti accordati alla Senatrice Liliana Segre e i suoi discorsi, in cui si violano monumenti e si minacciano testimoni dei terribili fatti che macchiarono in modo indelebile la storia d’Europa negli anni dal 1922 al 1945, è rasserenante sapere che ci sono giovani attenti, consapevoli e sensibili, come Francesca Ciracì, della quale ho già avuto occasione di pubblicare un contributo su Cariatinet. Ora Francesca, insieme ad altri suoi coetanei, sta percorrendo un pellegrinaggio sui luoghi della vergogna che videro i nazisti massacrare tanti ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici. Sul monumento che ricorda i martiri di Lidice (cittadina ceca distrutta dai nazisti per vendicare l’uccisione, a Praga, di Reinhard Heidrich) ha scritto, dimostrando nuovamente la sua delicata sensibilità, questa riflessione che condivido con i lettori del nostro Giornale, certo che anche loro proveranno l’emozione che leggendola ho vissuto io.

GRF

Lidice, 19 febbraio 2020.

Davanti ai miei occhi si distende una piana pacifica, silenziosa, freddamente affascinante. Un luogo denso di memoria nel quale non riecheggia più alcuna voce. Se chiudo gli occhi e respiro profondamente mi sembra di scorgere qua e là degli sguardi, dei passi, delle risate.

Ricordo i volti di quegli uomini che mi scrutavano appiattiti sulla parete del museo. Ricordo i loro sguardi talvolta timidi di fronte alla fotocamera. Chissà cosa pensavano mentre il fotografo scattava, chissà com’era stata la loro giornata? Forse tornavano dal lavoro, forse era domenica e si preparavano ad andare in chiesa o forse era sabato, e si preparavano ad andare in sinagoga.

Dalle immagini traspare una forte dignità, una volontà di tenersi in ordine consapevoli che nella loro foto prima o poi sarebbe stata racchiusa tutta la loro esistenza: Vedo dei colletti amorevolmente aggiustati dalle mani di una mamma, una moglie, una sorella. Vedo sorrisi accennati, nomi, date di nascita, famiglie. Vedo padri, figli, nonni, nipoti, fratelli, persone.

Riconosco il volto di un uomo che avevo visto ritratto il giorno del suo matrimonio e il mio stomaco si dilania. Ricordo che quegli uomini sono morti tutti, dal primo all’ultimo. Di alcuni rimane soltanto un riquadro bianco, non è stata trovata nemmeno un’immagine.

Sostengo il loro sguardo perché mi sembra di poter donare loro un po’ del mio tempo, utilizzare alcuni minuti della mia vita per aggiungerne alla loro.

Sono stati strappati dal grembo della vita con una violenza inaudita, senza rispetto alcuno, senza spiegazioni. I loro figli, troppo piccoli per essere considerati uomini, sono stati germanizzati o assassinati nelle camere a gas. Le madri cui sono stati strappati sono state internate nei campi.

Un paesino brulicante di vita, di storie, di persone è stato cancellato dalla faccia della terra: è bastata una notte ad annientare la vita. Una notte a cancellare sguardi complici, abbracci materni, dita intrecciate e colletti sgualciti. Una notte cupa, oscura, indicibile.

A che servono i monumenti, le immagini, i cimeli quando tutto ciò che rimane è una piana silenziosa? A che serve il vuoto nello stomaco quando i semi dell’odio germogliano ogni giorno?

Francesca Ciracì

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