Guerre stellari? Invoco un armistizio. Anzi, la pace.

Ho amato molto Guerre Stellari, esattamente quanto ho amato Tex Willer, Indiana Jones e, a un livello più elevato, “Il Signore degli Anelli”: pur essendo infatti, come i miei ventiquattro lettori ormai sanno, uno strenuo cultore della razionalità, non per questo sono un nemico della fantasia e dei voli della mente. Al contrario, non ci vedo nulla di strano o contraddittorio se, pur dubitando ad esempio della credibilità storica dei racconti biblici, poi mi godo l’ascolto del Messiah di Haendel, della Missa Solemnis di Beethoven o dell’Ave Verum di Mozart. Essere razionali non significa essere aridi e ciechi, né significa essere nemici di ciò che è Bello (con la B maiuscola), o anche solo piacevole divertente.

Dunque, viva Tex Willer, lo scazzottatore di cattivi che non ha mai torto un capello a una fanciulla né sfiorato un innocente, viva Indiana Jones, mix irripetibile di spavalderia, ironia, generosità e quanto basta di ribalderia, viva “Il Signore degli Anelli” (i libri prima che i film). E viva, anche, “Guerre Stellari”.  Peccato però che, soprattutto per quest’ultima saga, il business abbia finito per far premio sulla creatività artistica.

Diciamoci la verità: la storia non avrebbe perso assolutamente nulla se si fosse fermata dopo i primi tre, mitici film “Una nuova speranza”, “L’impero colpisce ancora” e “Il ritorno dello Jedi”. Poco importa che George Lucas avesse in mente, quando li scrisse, di produrre anche i prequel che poi, mano a mano che si continuava a girarli, si sono dimostrati sempre più deboli, fino a sfociare nei sequel imbarazzanti che hanno trasformato quello che in origine era un geniale exploit di fantasia creativa in una stucchevole e verbosa telenovela galattica, con storie che faticano a stare in piedi e si trascinano più che altro per gratificare l’industria del gadget e i profitti della Disney Corporation, stuzzicando a suon di effetti speciali un pubblico di bocca buona, che ingoia acriticamente questi film insieme a badilate di pop-corn e taniche di Coca-Cola.

Le ragioni dell’arte difficilmente si sposano con quelle del business, e come sempre sono le seconde a fare premio sulle prime. Per questo si sprecano i prequel, i sequel, gli spin-off e i remake, che in termini più nostrani sarebbero poi dei prologhi, dei sèguiti, dei derivati e dei rifacimenti: l’hanno fatto con “Via col vento”, “Cenerentola”, “La carica dei 101”, “Peter Pan”, “La fabbrica di cioccolato” e una miriade di altri libri e film e con esiti che raramente, sul piano artistico, hanno giustificato l’impresa. Ci cadde anche il grande Isaac Asimov, che alla splendida “Trilogia della Galassia” fece seguito con verbosi e inutili romanzi aggiuntivi che in realtà nulla aggiunsero alla magica intuizione originale, ispirata al “Declino e caduta dell’Impero Romano” di Gibbon.

Per quanto mi riguarda, dopo aver visto di nuovo i cattivi (brutti e spietati come da cliché) creare l’impero galattico, i buoni (ovviamente belli, generosi e tormentati) opporgli la resistenza e prenderle di santa ragione ma riuscendo comunque a salvarsi per giustificare la produzione di un ennesimo sequel, nel quale ovviamente si prenderanno una rivincita ma non definitiva, sennò addio ulteriore puntata della saga, ho deciso che con Guerre Stellari ho chiuso. Se e quando ne avrò voglia, tornerò a guardarmi uno dei primi tre film, quelli veri, e unici, che racchiudono lo spirito e il genio di George Lucas, così come “I predatori dell’Arca Perduta” è in fondo il vero e unico capolavoro di Spielberg dedicato a Indiana Jones.

Sarebbe bello se registi, autori e produttori capissero che le storie infinite, alla lunga, diventano stucchevoli; ma siccome loro, per le ragioni che sappiamo, rifiutano di farlo, allora, per quanto mi riguarda, ce la metto io, alle loro saghe, quella breve, preziosa e fondamentale parolina che loro rifiutano di usare: la parola “fine”.

Giuseppe Riccardo Festa

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