Dunque Beppe Grillo, non pago della discutibile intemerata di cui si è reso protagonista sui social network, vuole indagare sulla vita della ragazza che accusa il figlio di averla stuprata. Il progetto del giustizialista a corrente alternata (tutti, è il suo approccio, sono colpevoli già solo se imputati a parte me, i miei parenti, affini e sodali) è chiaro: a suo avviso basterà dimostrare (se sarà dimostrabile) che la ragazza conduceva una vita – come dire? – disinvolta per scagionare da ogni accusa il suo rampollo e gli altri che hanno fatto a turno per divertirsi sul corpo di lei, curando bene di documentare il tutto con filmini e selfie.
È un film frusto, visto e rivisto: se fosse su pellicola sarebbe pieno di graffi, macchie e strisciate dovuti all’abuso. È stato proiettato per decenni in tutti i tribunali ogni volta che una ragazza ha osato accusare un uomo di violenza sessuale: mi sembra di sentirli, gli avvocati difensori dei “bravi ragazzi” imputati di stupro: “se lei non voleva, come mai portava la minigonna? Come mai è uscita da sola tardi la sera? Come mai portava il rossetto? Come mai ha bevuto un bicchiere di troppo? Come mai era solita uscire con altri ragazzi? Come mai si scatenava in discoteca?” E via così, col frusto rosario di rinfacci tesi a dimostrare che “una brava ragazza” non farebbe mai tutte queste cose “equivoche e disdicevoli”.
Non so se siano più squallidi quegli avvocati o gli imputati che accettano una simile linea di difesa; l’alibi della provocazione è miserabile e meschino, e fa dell’uomo che lo invoca un sub-umano incapace di frenare i suoi istinti una volta che siano stati messi in moto.
Ma ammettiamo anche che l’accusatrice fosse davvero una ragazza che amava divertirsi con gli uomini. Arriviamo addirittura all’estremo più estremo: allarghiamo il discorso e immaginiamo che una prostituta denunci un uomo per stupro e volenza carnale: stando all’approccio di Grillo, il suo passato la condannerebbe senza appello.
A Grillo non viene in mente un concetto talmente elementare da essere addirittura banale e che dovrebbe essere scontato: l’amore si fa in due. Se la donna, quale che sia la sua storia anche fino a un minuto prima, ci ripensa e dice NO, a quel punto l’uomo si deve fermare. Se continua non ha alibi: approfittando della sua maggiore forza fisica sta esercitando violenza imponendo all’altra un rapporto sessuale non voluto.
Resta naturalmente da dimostrare che stupro ci sia davvero stato e che davvero l’accusatrice non fosse consenziente o fosse in condizioni tali da non poter esprimere un consapevole consenso: toccherà alla magistratura, sentite le parti e vagliate le prove, decidere al riguardo.
Ma pretendere di dimostrare l’inesistenza di un reato come lo stupro appellandosi allo stile di vita della presunta vittima è di per sé una sentenza. Una sentenza che condanna per manifesto maschilismo, arretratezza mentale e disprezzo dei diritti e della libertà delle donne chi, quali che siano le sue motivazioni, avanza una pretesa del genere.
Giuseppe Riccardo Festa
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