IN DIFESA (PIU’ O MENO) DI ANTONELLO VENDITTI

Immagino che farò storcere il naso a molti estimatori del cantautore romano, ma ci tengo a dire, per onestà intellettuale, che di Antonello Venditti la cosa che mi piace di meno è la voce, con quel suo procedere belante che trovo decisamente sgradevole. Poi le canzoni. Alcune le trovo straordinarie, ad esempio “Bomba o non bomba”: è irresistibile, in quella ballata, accattivante anche sul piano musicale, la satira sull’intellettuale di Firenze, “con la faccia giusta e tutto quanto il resto”, che non è d’accordo perché “manca l’analisi, e poi non c’ho l’elmetto”: satira su un certo mondo di sinistra che fa pensare a Fabrizio De Andrè, quel gigante del cantautorato italiano, che irrideva i “teorici un po’ acrobati della rivoluzione”.

Ci tengo invece a dichiarare (e irriterò senz’altro ancora di più gli estimatori di Venditti) che trovo stucchevole, sdolcinata e oleografica, e di conseguenza detesto, la sua canzone più iconica, “Roma capoccia”, con i suoi “passeracci” che “so’ usignoli” mentre “’na carozzella va co’ du’ stranieri”, e ancora “la maestà der Colosseo” e, peggio che andar di notte, “la santità der cuppolone”: luoghi comuni à go-go che si concludono con l’ossimorico “Roma capoccia der monno infame”. Ben altro, raccontando di Roma e delle sue atmosfere, hanno saputo dire Califano con la struggente “La nevicata del ‘56” e, perché no, Renato Rascel con la sua malinconica “Arrivederci Roma”.

A proposito di cantautorato italiano, a Venditti, oltre a De Andrè, preferisco di gran lunga De Gregori, Dalla, Vecchioni e Guccini. Questione di gusti. Detto questo, lasciatemi però spezzare una lancia a favore di Venditti che durante un concerto, qualche giorno fa, ha mandato a quel paese una ragazza che disturbava, accorgendosi solo dopo che si trattava di una persona disabile e tirandosi addosso uno tsunami di polemiche, secondo me eccessive.

A prescindere dai gusti, Venditti è un professionista che sale sul palco e quando lo fa dà l’anima. Ha i fari in faccia, non vede il pubblico ma solo vaghe ombre indistinte e come tutti gli artisti è concentrato sulla sua esibizione, frutto di un intenso lavoro di preparazione.

Ci sono stati diversi altri casi di artisti che hanno mostrato insofferenza verso i disturbatori. Ricordo che nella mia Macerata, tanti anni fa, al teatro comunale l’attore Michele Placido abbandonò furioso la scena dopo che un cafone, su un palco, durante la sua performance rispose ad alta voce al telefono (inutilmente, di solito, prima dell’inizio dello spettacolo il pubblico è invitato a spegnere i maledetti cellulari).

Per giunta, poi, dopo aver appreso di aver insultato una disabile Venditti si è meritoriamente scusato, cosa che non tutti sono capaci di fare. Tanto per fare un nome, non è capace di farlo Marco Castoldi, in arte Morgan, che oltre ad autoproclamarsi genio – e chi si loda s’imbroda – riesce a rendersi odioso all’universo mondo, salvo poi accusare l’universo mondo di essere cattivo con lui.

Insomma, mettetevi nei panni di un cantante, o di un attore, di un concertista o di un conferenziere, che nel bel mezzo di una sua esibizione si sente disturbare da schiamazzi, trilli di telefono, chiacchiericci. È umano che a un bel momento perda la pazienza.

Lo cantava Roberto Vecchioni in una sua canzone, “Signor giudice”: possiamo essere cantanti, attori, concertisti o conferenzieri, ma bisogna capirci. “In fondo siamo uomini”.

Giuseppe Riccardo Festa

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