Oggi nella prima giornata normale di festa, dopo il lungo lockdown di quarantena nazionale, sono sceso da casa di prima mattina.
Il cielo azzurro, la luce limpida, i colori e i profumi della tarda primavera mi hanno accolto nel migliore dei modi. Un bagno inaspettato di felicità e gioia.
Non mi capitava da un bel po’ di tempo di godere di tutta quella libertà e di un tempo sconfinato a mia disposizione.
Nelle lunghe settimane di emergenza sanitaria sono sceso periodicamente per le normali incombenze familiari, ma il tempo limitato, l’incredulità e la paura mi hanno sempre messo una tale ansia, che cercavo di fare presto per rientrare quanto prima.
Volevo rioccupare i mie spazi, dove avevo trovato con il resto della famiglia assetti e equilibri tutti particolari che hanno, tuttavia, ben retto per più di sessanta giorni.
La reclusione non mi è dispiaciuta. Me ne sono fatta una ragione, provando a trovare ogni volta soluzioni che mi potessero far stare bene. Insomma, ho ben resistito.
Adesso, lentamente, rientrerò nella normalità. Diversa da prima e di ora. Stranamente sento che mi batte dentro, però, una sensazione particolare. Che non saprei definire.
Viene fuori dal mio inconscio un certo timore a riprendere la normalità, seppure gradualmente.
Come se avessi paura di non riuscire a riabituarmi a una società che mi appare scivolosa e insidiosa.
Così come affrontare il prossimo, come se non avessi più la cassetta degli attrezzi giusti per combattete in un mondo che forse non avrà fatto tesoro di quanto accaduto e che non saprò abitare.
Davanti a tutto questo c’è in fondo l’oggettività. Quella di un forte dramma che abbiamo vissuto con migliaia di morti, senza il conforto dei primi familiari. Dove il vero danno sono le lacrime. Che non è poco.
Mi spiace, ma tutto questo ottimismo o smania a voler pensare che il peggio è alle nostre spalle, in piena verità, non mi viene proprio.
Nicola Campoli
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