SALMAN RUSHDIE: L’ENNESIMA VITTIMA DEL FANATISMO RELIGIOSO

Ho da anni una forte avversione nei confronti della parola “fede” e del verbo “credere”, chiunque sia a proporli: che si tratti di un tizio dalla mascella prominente che da un balcone invita il popolo a “credere, obbedire, combattere”, un Karl Marx che pretende di prevedere la direzione della storia, un astrologo che lancia profezie che poi puntualmente non si verificano, un cartomante che si fa pubblicità su Facebook (succede, succede),  un prete che mi assicura di possedere verità eterne o, infine, un ayatollah che invita i bravi musulmani ad accoltellare chi osa criticare, o anche solo nominare, il suo profeta e il suo dio: “fede” e “credere” implicano l’acritica accettazione di un concetto e la rinuncia a esigere prove di quanto si sente asserire. In conclusione, a mio parere (accetto contestazioni razionali), con buona pace di tutti i teologi e i teosofi di questo mondo, o si crede o si ragiona: tertium non datur.

Con queste premesse, non posso che esprimere rabbia, frustrazione e insofferenza di fronte alla notizia dell’aggressione subita da Salman Rushdie a New York da parte di un ragazzotto imbecille, americano ma di fede ferocemente e fanaticamente musulmana, in esecuzione della “fatwa” lanciata contro lo scrittore, una quarantina d’anni fa, dal cupo e non meno fanatico ayatollah Khomeini. La fatwa colpiva, oltre che Rushdie, anche chiunque contribuisse alla pubblicazione e diffusione del romanzo “I versetti satanici”. Il libro aveva scatenato l’ira del religioso sciita (il quale, pare, nemmeno l’aveva letto), per via dell’allusione alla possibilità che alcuni versetti del Corano potessero essere stati dettati a Maometto non dall’angelo Gabriele ma da un altrettanto loquace diavolo (da qui il titolo).

Appena appresi della “fatwa” mi affrettai a comperare e leggere il libro, e non ho difficoltà a dichiarare che lo trovai brutto, sconclusionato e sgradevole: una specie di fantasy ambientato nella Gran Bretagna e nell’India contemporanee e nell’Arabia del settimo secolo, infarcito di bizzarre e assurde metamorfosi, improbabili migrazioni di folle al seguito di farfalle e consimili amenità.

Ciò non toglie che conservo il libro e lo tengo in bella evidenza nella mia biblioteca, accanto a “Gomorra” di Roberto Saviano, che pure ho acquistato per principio: sapevo che quel libro non avrebbe aggiunto nulla a quello che già si sa sull’argomento ma anche Saviano, in un certo senso, sta subendo una “fatwa”, lui da parte della criminalità organizzata, per aver osato raccontare le cose con chiarezza, e se non altro per questo merita la massima solidarietà.

Tornando all’imbecille che ha accoltellato Rushdie e alla “fatwa” che è all’origine del suo gesto, è evidente che è stata una fede cieca e irragionevole nella sua religione ad averlo motivato. Una fede la cui cecità e irragionevolezza è dimostrata proprio dal fatto che il giovanotto non si è chiesto come mai, se la sua onnipotente divinità è offesa da qualcuno, non si prende la briga di provvedere personalmente a regolare i conti con quel qualcuno ma deve ricorrere alla fallibile mano di un fedele; e più in generale, è dimostrata dal fatto che quel giovanotto e tanti altri, di ogni fascia di età, non si rendono conto che a dire “Dio lo vuole” sono sempre e comunque degli uomini: uomini che si autoproclamano portatori della volontà di quel Dio, senza portare uno straccio di prova di esserlo veramente: “bisogna avere fede”, dicono.

Di uomini del genere trabocca la storia di tutte e tre le cosiddette “grandi religioni monoteistiche” alle quali vanno aggiunti il nazismo tedesco, il fascismo italiano e il comunismo, almeno nei modi in cui è stato predicato e applicato nell’ex Unione Sovietica, in Cambogia e in Cina. Uomini del genere fanno regolarmente appello alla fede dei loro seguaci; fede che, se non sorge spontanea, si impegnano a imporre con la forza e col terrore.

A uomini del genere bisogna rispondere con fermezza, e senza paura, che la fede cieca e irragionevole è all’origine delle peggiori nefandezze commesse dall’umanità e che ad essa è e sempre sarà preferibile un sano, ragionevole e ironico dubbio. E che se il loro dio ha qualcosa da contestare a qualcuno, beh, che se la sbrighi da solo, se ne è capace.

Cosa della quale, va da sé, io dubito fortemente.

Giuseppe Riccardo Festa

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