NELLA MORSA DEL COVID-19. CE LA FAREMO?

Ogni giorno siamo immersi nel mare delle informazioni  che riguardano la terribile pandemia che stiamo vivendo.  Su  TV e giornali l’argomento è di gran lunga quello più dibattuto, a volte l’unico. Ma le informazioni non sono sempre coerenti, o a senso unico. Spesso riflettono opinioni di esperti più che certezze, delle quali noi tutti avremmo bisogno. Naturalmente  è opinione diffusa  che le opinioni espresse dagli esperti e che spesso divergono tra loro siano comunque date in buona fede e che le differenti vedute siano il frutto dell’incertezza dell’andamento della pandemia, della solo parziale efficacia delle attuali terapie, delle prospettive nebulose di un vaccino in un futuro più o meno prossimo.

Vorrei condividere con i miei amici alcune considerazioni che spero possano contribuire a far riflettere su quelle poche certezze delle quali  sino ad ora, a mio avviso, si dispone. Attraverso un breve escursus sulle epidemie  più significative o meglio impresse nella memoria degli storici, per poi proporre   alcune brevi considerazioni sulla pandemia attuale.  Il primo dato di fatto è che le malattie  epidemiche hanno attraversato i secoli,  e l’umanità ha dovuto subirle e ne è stata spesso stravolta.  Di epidemie di peste si ha traccia persino nell’impero Romano, ma non ho nessuna intenzione di spingermi tanto indietro considerata la morsa stringente, e l’impellenza di doverci occupare, noi tutti, del problema attuale.

Desidero accennare brevemente alla peste che sconvolse l’Italia nel 1630, così ben raccontata dal Manzoni, nei Promessi Sposi, e nella Colonna infame. Che si protrasse dal 1630 al 1633 e che determinò la scomparsa di poco meno della popolazione del tempo, avendo questo terribile male una  mortalità di poco inferiore al 50%. Per dire che allora le conoscenze riguardo alla causa e all’origine del morbo erano assai lontane dalla realtà e da ogni pretesa di scientificità.  I lanzichenecchi  che nel ducato di Milano ne furono i reali responsabili, spinti in Italia da potenze straniere  nell’ennesimo scontro per la contesa del nostro territorio, portarono nel nord della Penisola distruzione  e morte due volte: per gli eccidi e i soprusi   di cui al solito si macchiano gli invasori nei confronti soprattutto delle parti più deboli ed indifese delle popolazioni, e per il terribile morbo che trasmisero a gente inerme.  Peste bubbonica o peste manzoniana, fu detta, perché  di essa, sulle orme dello scrittore Ripamonti, che la visse da vicino, se ne occupò il grande scrittore ottocentesco non solo nei  Promessi Sposi ma anche nel testo altrettanto importante  de “La Colonna infame”.

Nell’affrontare questo terribile morbo regnava l’incertezza generale: da parte delle autorità locali, vincolate, per motivi politici, alle convenienze di Spagna, Austria e Francia, e comunque incapaci di assumere reali contromisure (impresa che   oggi appare ancor più impensabile ed  improponibile) limitandosi esse, per lo più, a calmierare il prezzo dei beni di prima necessita, e del pane in particolare; da parte della gente comune spinta dalla fame e dalle malattie a trovare dei capri espiatori facili e comodi quanto erronei. Le cronache del tempo sono piene di storie di untori e di poveracci che, per il minimo sospetto, venivano  processati da tribunali improvvisati e  molto spesso condannati a morte attraverso strumenti di sevizie crudeli e medioevali, mentre il morbo continuava ad imperversare. La pietà cristiana, a cui  tutti, laici e non, devono rendere omaggio, convinse il Manzoni a far luce su tragedie  immani  e a rendere giustizia  ai tanti che, vittima dell’ignoranza e della disperazione, furono destinatari di una sorte crudele. E a portare, forse, per pietas, sollievo e rinfresco alle loro anime.

Nel 1918 l’epidemia influenzale detta Spagnola si diffuse in tutto il mondo, favorita dalle comunicazioni ormai possibili tra stati e continenti, con il contributo determinante dei  soldati degli eserciti di oriente ed occidente che  portarono  il virus     ovunque.  La Spagnola mieté 50 milioni di morti, forse anche più: non esistono stime certe al riguardo. Più delle due guerre mondiali messe insieme. Questo per dare un’idea della portata di certe epidemie e di come   oggi la prospettiva di una guerra combattuta  con armi chimiche e microbiologiche, delle quali più facilmente   potrebbero dotarsi nazioni  più povere di quelle detentrici delle armi nucleari,    incuta terrore a tutti i livelli. Per  tale motivo tali armi sono universalmente  bandite, mentre, come noi tutti sappiamo,  venivano ampiamente utilizzate durante le guerre coloniali e persino nelle  trincee della Carso e delle Ardenne e di mezza Europa nel corso del primo conflitto bellico del secolo scorso.

Ancora oggi ci si interroga sulle cause che hanno determinato una mortalità talmente elevata della Spagnola.  Gli ultimi studi risalgono a pochi anni orsono.  Ci si interroga sull’andamento a doppia W  della curva di mortalità, del perché cioè i morti siano stati particolarmente numerosi nelle fasce di età relativamente giovane, dai 20 ai 45 anni,  e poi nei grandi anziani. Molti giovani morirono quindi di influenza, mentre questa patologia normalmente  mieteva e miete vittime soprattutto nella popolazione anziana e nei soggetti con comorbilità, cioè con patologie associate.  Per spiegarlo si sono invocate nei giovani una iperreattività all’agente patogeno, il famigerato virus influenzale H1N1, si è parlato di tempesta citochinica, termine  che è entrato nel vocabolario di molti dopo il diffondersi del nuovo coronavirus,  si è invocata una minore resistenza dei giovani rispetto agli anziani a causa di una minore esposizione a virus influenzali  circolati negli anni precedenti, si è data molta importante  allo stress e alla malnutrizione post-bellici che soprattutto nella seconda e terza fase dell’epidemia della spagnola hanno determinato una vera e propria ecatombe.

Ma, in medicina si sa che quando si invocano tante cause nessuna  di essa  è  realmente responsabile. Ieri come oggi esistono, come vedremo, molte incertezze diagnostiche epidemiologiche e terapeutiche (Lo vedremo anche a proposito della pandemia attuale).

Poi anche questa epidemia (il termine pandemia è ben più recente) svanì di colpo,  come di colpo era svanita  la peste e anche in questo caso gli esperti di turno tirarono  in ballo le spiegazioni più diverse, alcune delle quali piuttosto pittoresche. Ma la realtà, cari amici,  è che la biologia è una materia ancora inesplorata, e, chissà!, saremmo felicissimi tutti di una risoluzione simile anche per il COVID-19, e nessuno di noi, ci scommetto, sarebbe molto preoccupato o rammaricato nel caso in cui non si riuscisse a trovare  una spiegazione convincente  di questa dipartita del virus.

Nel 1957 il mondo è stato colpito dall’Asiatica, un’altra pandemia con esiti, per fortuna meno devastanti della spagnola, ma pur sempre rilevanti, pari a circa due milioni di morti.

Poi abbiamo  avuto (e abbiamo) l’AIDS. A proposito di esso ricordo ancora,  il grande intuito diagnostico del mio professore di Clinica Medica, al quale capitò di visitare, erano i primi casi in Italia,   una ragazza con sintomi da noi tutti ritenuti strani  e difficilmente interpretabili. Il prof Sergio Lenzi,  invitava il nostro  caporeparto, medico di ruolo,  a provvedere affinché  contattasse Michele (il grande  microbiologo Michele Lanza: parlava da pari a pari) perché effettuasse gli accertamenti immunologici o virologici del caso: dopo qualche giorno avemmo la conferma che la paziente era affetta da Sindrome da immunodeficienza acquisita.

Ricordo ancora che molti scommettevano in un vaccino la cui sintesi sarebbe stata questioni di pochi anni (forse tre, forse cinque, si diceva): ne sono passati quasi quaranta  e di vaccino non si parla quasi più. Perché,  semplificando molto,  si tratta di un virus multiforme,   di un retrovirus, cioè di un virus cioè ad RNA, in grado di mutare le sue caratteristiche chimiche e proteiche tanto rapidamente da rendere  sino ad ora vani tutti i tentativi di creare un vaccino efficace. Lo stimolo alla produzione di anticorpi antivirali diventa per questo motivo inefficace, perché nel momento in cui   vengono prodotti, non possono più    indirizzarsi verso il bersaglio giusto, avendo esso nel frattempo cambiato le proprie caratteristiche al punto tale da rendersi irriconoscibile al sistema immunitario. Nel frattempo il virus ha mietuto diecine di milioni di morti,  si stima poco meno di quaranta, anche se oggi le moderne cure antivirali, disponibili solo in certe nazioni e non in altre, a causa dei costi elevati, riescono a bloccare la replicazione del virus e a consentire agli ammalati di HIV  di condurre una vita pressoché  normale.

Poi abbiamo avuto la SARS, la MERS,  la pandemia del virus Ebola, il morbo della mucca pazza, che noi tutti ricordiamo (per le enormi privazioni cui costrinse molti buongustai). La gran parte di provenienza dalla Cina dove i virus si annidano in specie animali, quali pipistrelli zibetti e altri,  con  le  quali quelle popolazioni hanno contatti stretti,  e le cui carni spesso vengono  consumate  come pasti. Un salto di specie, cioè il passaggio del virus dall’ospite animale all’uomo,   è altamente probabile, ed è quanto molto verosimilmente  si è verificato in occasione della pandemia attuale, che ci sta attanagliando.

Un paio di informazioni sull’Ebola, forse  uno dei virus conosciuti più letale, paragonabile al virus della rabbia, letale quasi al 100% e  per fortuna attualmente scomparso dai nostri territori. Sino ad ora si sono registrate tre epidemie di Ebola,  le prime due nella Repubblica del Congo,  nel 1995 e nel 2007,  la terza  si è invece sviluppata dal 2014 al 2016 in Guinea e ha ucciso qualche migliaio di persone. Niente di paragonabile al  COVID-19. Ma il virus dell’Ebola  dà luogo ad una sintomatologia molto spesso gravissima,  e per questo motivo le persone infette non hanno la possibilità, ammalandosi gravemente,  di contagiare molti individui. Mi è capitato di leggere qualche mese fa un bel libro di uno scrittore americano, David Quammen, dal titolo Spillover.  Vi si racconta dei molti casi in cui dei virus che sono ospiti comuni di alcune specie animali nei quali non causano alcuna patologia, possono  passare dall’ospite animale, che ne costituisce il serbatoio naturale, all’uomo. Tutto ciò avviene  a causa di pratiche e comportamenti  censurabili    come per esempio il disboscamento di foreste, la riduzione dello spazio vitale di alcune specie animale e il loro susseguente inevitabile contatto con l’uomo.  Altre volte sono in causa alcune pratiche egualmente condannabili  come il consumo di carni di animali, spesso morti, con inevitabili nefaste conseguenze. Si ritiene per esempio che il virus dell’ebola abbia infettato l’uomo a causa del consumo di carni di  carcasse di scimmie. Queste pratiche sono ancor più pericolose in quanto oggi grazie al trasporto aereo è possibile che un agente patogeno pericoloso in poche ore si sposti, all’interno dell’organismo di un viaggiatore ignaro, da un continente all’altro e causi in teoria danni inimmaginabili.

Personalmente guardo con timore a questi comportamenti, al disboscamento indiscriminato, alla violenza esercitata su specie animali private dei loro territori, alla inevitabile promiscuità che questo comporta, al consumo di carni di animali potenzialmente infetti e veicoli di infezione per l’uomo.  Potrebbero essere la causa di nuovi inenarrabili drammi.  E’ certo che la storia dell’uomo è intimamente legata a quella dei microrganismi e dei virus in particolare che hanno attraversato insieme all’uomo il corso dei secoli. Questa considerazione, che vale ovviamente anche per il coronavirus, ci rende consapevoli del fatto che siamo molto meno invulnerabili di quanto pensiamo, nonostante le nostre conoscenze siano enormemente superiori a quelle del passato. Ma esistono purtroppo dei fattori di incertezza che rendono ogni epidemia diversa dalle precedenti, portando con sé  dei fattori di incertezza e di imponderabilità che rendono conto del perché non possiamo mai sentirci completamente al sicuro, fino a quando non ne comprendiamo le caratteristiche intrinseche.

Se dunque abbiamo avuto negli ultimi decenni diverse epidemie e molte sono state etichettate come pandemie,   quella da coronavirus  è sicuramene una delle più temibili.   Alcuni studiosi ritengono, non si sa con quale fondamento, che ogni cento anni la specie umana corra il rischio di essere sopraffatta da simili catastrofi biologiche.  Non ha spaventato, si può dire,  nessuno di noi la SARS,  la MERS,  persino l’Asiatica e la epidemia detta di Hong Kong del 1968, ma spaventa tutti quella del nuovo coronavirus.

Il motivo è semplice:  pur avendo una mortalità bassa, pari circa al 3-3,5%, ha una fortissima capacità di contagio, ed è in grado di infettare milioni di persone.

La sua forza sta quindi nei numeri. Perché pur essendo,  il Covid-19,  assai meno letale del virus Ebola, è tuttavia in grado di uccidere un numero infinitamente più grande di persone per la sua capacità di diffondersi a macchia d’olio, di infettare   oltre agli asintomatici anche persone anziane o con patologie e determinare in queste ultime il quadro temibile della polmonite virale che fa venire la febbre ma soprattutto toglie il fiato e costringe al ricovero in terapia intensiva o in rianimazione dove le cure praticate non sono sempre efficaci.

Ci troviamo, come dicevo,  di fronte ad un nemico primordiale e spietato, in grado di spezzare le nostre certezze e la nostra fiducia incrollabile nella tecnologia,  nella scienza, financo nella medicina,  e capace di mettere a nudo la nostra fragilità biologica,  di smascherare la temerarietà delle nostre azioni,  di rendere evidente la pericolosità di comportamenti irresponsabili,  come la negazione del virus stesso e del grave pericolo che rappresenta.

Tutte le sere (e tutto il giorno) in TV non si parla d’altro che di questa pandemia.  E non sempre lo si fa per dire poche cose e chiare. Spesso si dà spazio a polemiche per aumentare gli ascolti, si dà  voce a chi non ha alcuna competenza in materia, e   si contrappongono specialisti con visioni opposte del problema.  In questo mare di notizie  contraddittorie persino le persone più colte e razionali possono alla fine manifestare dei  dubbi. Nel frattempo il numero dei contagiati aumenta e questa sera (7 novembre 2020) sono oltre 39mila, una cifra  spaventosa e temibile.

Come conseguenza diretta  la vita di noi tutti è, si teme per sempre, sconvolta:  gli incontri con gli amici, i familiari  o le persone care sono ridotti o annullati.  La voglia di stare insieme,  di trascorrere qualche ora in compagnia, (essendo protagonisti o vittime di motteggi,  o di sfottò, che probabilmente allungano la vita),  costretta ristretta o inibita,  le passioni quali la montagna e il trekking sospese (per quanto mi riguarda), i progetti rinviati.

Che ne sarà di noi? E dei nostri figli, e dei nostri cari? Alla mattina una bella giornata di sole ci riporta facilmente all’ottimismo. Le persone con le quali ti capita di dialogare (a distanza, ahimè) esprimono la tua stessa fiducia  nella pronta risoluzione della pandemia, della scoperta sempre più vicina del vaccino, del progresso nelle cure, dell’eroismo dei medici, come il primario di Piacenza, il dottor Luigi Cavanna, giustamente elogiato dalla rivista americana Time per il suo coraggio e per  le cure fornite porta a porta ai pazienti del suo territorio.

Poi, alla sera, torna il buio, e non solo perché il sole tramonta. Torna anche nell’anima: perché persino  questa volta il numero dei contagi ha superato il record di ieri,  i morti sono in continuo aumento e le terapia intensive si stanno avvicinando pericolosamente ai livelli di marzo ed aprile.  Le misure adottate  chissà se si riveleranno efficaci, se la corsa del virus sarà frenata o se travolgerà noi tutti.

Cosa non ha funzionato? Perché l’ottimismo di giugno e luglio ha lasciato il posto  al più cupo pessimismo di oggi?  Non è il caso di fare facili polemiche, ma io ricordo ancora nei tristi mesi del lockdown la necessità di riciclare le mascherine, di attrezzarci alla meglio nel mio e in molti altri ospedali,  la mancanza di alcool e di guanti, e l’assenza quasi completa di visiere  protettive, del rischio corso nell’affrontare situazioni potenzialmente rischiose.  Poi è arrivata l’estate.  Ma le terapia intensive non sono state raddoppiate,  i bandi per i nuovi posti letti pubblicati solo agli inizi di ottobre (per colpa del Governo?, per colpa delle Regioni?) persino i banchi a rotelle non sono arrivati in tempo e i monopattini sono serviti più a creare scompiglio tra i pedoni di Milano,  di Roma e di altre città, che a migliorare la viabilità. In ultimo le notizie che arrivano riguardo al Commissario alla Sanità della Regione Calabria, alla sua inefficienza, riempiono ancora più di amarezza.

Gli assembramenti estivi, le discoteche, le spiagge affollate,  i trasporti programmati in modo irrazionale   hanno fatto il resto. Il virus ne ha approfittato, e ha dimostrato di essere meno clinicamente morto di quanto qualcuno, assai poco avvedutamente,  voleva farci credere.

Sul piano scientifico esistono delle certezze, poche, in materia di trattamento.  Si chiamano Remdesivir, idrossiclorochina, azitromicina, cortisone, anticorpi monoclonali. Poi verrà il vaccino.

Questi presidi utilizzati in modo razionale ed organizzato, dando molto più spazio evidentemente alla medicina territoriale e coinvolgendo i medici di base e tutti gli attori che operano a questo livello,  sono in grado di abbattere,  e di molto, la mortalità. Prima parlavo dei meriti del dottor Cavanna: persino gli americani, hanno apprezzato e riconosciuto lo sforzo sostenuto dal primario di Piacenza consistente nell’andare al domicilio delle persone contagiate, somministrare per tempo le cure, ovviamente sintomatiche ma spesso risolutive,  contribuendo al miglioramento notevole della prognosi dei malati. Così Piacenza dopo i 900 morti del lockdown ha cambiato storia e ora guarda, grazie a questa brava persona, con maggior fiducia al futuro. E’ ovvio che dietro lo sforzo la determinazione e l’impegno del valoroso collega deve stare una organizzazione di medicina territoriale degna di tale nome, diversamente questa iniziativa non avrebbe alcun senso.   Vi siete chiesti perché il presidente Trump è stato rimesso in piedi dopo solo qualche giorno di ricovero? E si che stava bene! (Come avrebbe potuto altrimenti negli ultimi giorni di campagna elettorale tenere sino a 5 comizi in un giorno?)  La risposta è: terapia con anticorpi monoclonali.  Della quale per motivi non chiari molti si ostinano a negare la validità.   Ma questo trattamento è codificato nella terapia di molte malattie infettive, come il tetano tanto per dirne una.

Non voglio per nessun motivo addendrarmi in discorsi politici e di natura economica.  Per non rischiare di dire banalità e aggiungermi al coro degli esperti di giornata.  Spero che a livello nazionale ed internazionale si riesca a trovare la quadra, a costringere in un angolo il virus, a renderlo inoffensivo ed inefficace al più presto. Occorreranno zone rosse e limitazioni, sostegni degni di questo nome alle imprese e alle varie attività economiche, sul modello degli Stati Uniti e dell’Australia dove le imprese economiche hanno ricevuto aiuti sostanziosi ed immediati,  senza incorrere in blocchi informatici da click day.

E in attesa del vaccino, certo, occorrerà indossare le mascherine, lavarsi spesso le mani e mantenere la distanza sociale persino tra familiari che non si incontrano da tempo. Ok.

Ma tutto questo può non bastare,  e sembra non bastare. Ce ne accorgiamo alla sera guardando il telegiornale.  Quello che occorre è  evitare in ogni modo gli ASSEMBRAMENTI,  i posti affollati,  assumendo  un atteggiamento di maggiore responsabilità che nei giovani e anche negli anziani  è mancato e sembra ancora mancare. Temo che se non evitiamo di stiparci come sarde nei mezzi di trasporto, se non la smettiamo di accalcarci nelle piazze e di  venire meno alla regola fondamentale di mantenere la distanza, se non  diamo un freno alla voglia di manifestare nelle piazze e di mettere in un angolo, appena usciti da scuola,  le regole che così rigidamente si sono seguite durante le lezioni, ogni provvedimento risulterà inutile.  Non riusciranno a proteggerci le mascherine o il lavaggio frequente delle mani, e i contagi continueranno a salire a dispetto di ogni misura restrittiva da parte delle autorità politiche  e di ogni, auspicato, sostegno alle imprese.

Lo dico con cognizione di causa. Esistono almeno due nazioni che sono riuscite a vincere, almeno temporaneamente il virus. La prima è la Cina, i cui metodi polizieschi non possono certo rappresentare un modello per le società occidentali. Ma,  e questa è la buona notizia,  esiste un’altra nazione democratica ed avanzata, l’Australia,  che, circa una settimana fa, ha festeggiato il primo giorno con zero contagi.  Ottenuto dopo quasi quattro mesi di vero lockdown.  Perché il successo della chiusura totale consiste proprio nell’evitare che le persone si assembrino e contribuiscano alla diffusione esponenziale dei contagi.

Le certezze di cui parlavo, dunque, sono poche. A livello scientifico esistono dei farmaci che se somministrati  in maniera corretta possono dare una svolta. A livello sanitario organizzativo,  la chiave di volta potrebbe essere spostare le cure nel territorio, costruendo dei buoni modelli organizzativi e coinvolgendo anche i medici di base. Resta, e questo è  sicuramente la cosa più importante, il comportamento ragionevole e saggio di ognuno di noi. Come ho detto altre volte,  nell’attesa che  ne arrivi uno efficace e sicuro,  NOI SIAMO IL VACCINO contro il nuovo coronavirus: assumiamo, giovani e meno giovani, comportamenti corretti e meno superficiali,  evitiamo gli assembramenti, le adunate più o meno oceaniche,  limitiamo il contatto, con  gli altri, purtroppo, al minimo indispensabile. Non sottovalutiamo il problema. Forse in questo modo potremo vedere presto la luce in fondo al tunnel.

Angelo Mingrone

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